Chissà se anche questo fa parte dell'interessante progetto/filosofia dei Jetlag. Il primo live ufficiale della band a distanza di 2 anni dall'uscita del disco (che in realtà, specifichiamo, è poco più di uno visto che On The Air risale agli ultimi mesi del 2004). Un ritorno con delay sulla lunga distanza che riporta in scena quello che secondo me è stato l'album italiano più interessante del 2005 sotto il punto di vista musicale, artistico e della produzione. Una filosofia (quella del jetlag, del fuori fase, del momento giusto tra i momenti sbagliati o viceversa) nel progetto (un disco pieno di super-ospiti, provenienti dalla musica, dalla tv, dal cinema) o forse il contrario. nessuno può ben spiegarlo ma il risultato è sotto gli occhi di tutti, 14 tracks una più bella dell'altra, con una produzione che disintegra letteralmente qualsiasi altra produzione italiana mainstream (c'è gente che ancora parla dei suoni di Ramazzotti. ma cazzo non lo sentite che c'ha l'accompagnamento degno di una Bontempi ?). Roba che se il Jetlag project l'avesse pensato Prince staremmo ancora qui a ricamare su “che gran genio che è Prince”, “come suona Prince non suona nessuno”, “si sente che c'è Prince dietro il mixer” fino ad arrivare al classico “ma non si chiama più TAFKAP?”. Già dalla prima intervista che ho fatto tempo fa alla band si intuiva un live che andava al di là del semplice “riproponiamo i brani del disco”, e le promesse sono state mantenute. La terza sala del Qube di roma è infatti stata allestita per speciali proiezioni curate da alcuni giovani visualizer e Jacopo Rondinelli (designer/bassista dei Jetlag); sono montaggi forsennati, filmati in stop-motion, animazioni e rimandi al logo (Salazoo) della band. Talvolta ripercorrono il tema narrativo della canzone (le barbie e i ken durante Il Gangster dell'amore) talvolta lo spirito del pezzo (l'uomo che simula la sua “parvenza di normalità”, fermo sulla panchina mentre attorno si alternano personaggi e fatti assurdi su E' Necessario). Dal punto di vista del sound, invece, i Jetlag giocano sul diretto, sul crudo ridotto
all'essenziale sulla singola stoccata che fa subito centro. Del resto per riproporre fedelmente ogni sfumatura sonora del lavoro sarebbe necessaria una band in formato Broken Social Scene, mentre sul palco trovano posto il classico tris basso+chitarra+batteria, con l'aggiunta di una tastiera (neanche usata molto a dir la verità, presente solo su brani come Don't Talk To Me e Jetlag Effect) e, soprattutto, di un percussionista che -a sentirli suonare- sembra essere il vero elemento che fa la differenza. Non voglio togliere nulla al batterista, preciso come un metronomo, che ha prestato le sue mani anche ad accompagnamenti con l'acustica, né a Jacopo, col suo basso funky, né soprattutto a Livio, un chitarrista che, per dirla a parole spicciole/romane “c'ha una testa così!”, e che senza esagerazione potrebbe essere il nostrano Jhonny Greenwood per l'uso dell'effettistica nei pedali (si è molto sentito un effetto “whammy digitech” in stile The Bends) e nel e-bow sulle 3 chitarre (Telecaster, Stratocaster e Les Paul, 3 differenti suoni per meglio sfumare ogni singolo brano). Ma il percussionista ha dato tutt'altra piega ad ogni singolo brano, donandogli quella veste un po' jungle un po' techno che ha fatto la differenza sui brani più groovy, rendendo selvaggia l'iniziale Jetlag effect, ancor più dancefloor Martini Disease e
più incalzante Il Gangster dell'amore. Una menzione speciale dev'essere fatta per Emilio Cozzi, che -infiniti “ci siete???” a parte- si è dimostrato un frontman inaspettato, marcando con le espressioni del volto le emozioni delle canzoni e tenendo il tempo ondeggiando quel suo cespuglio di capelli (di Robert-Smith-iana memoria). Riesce a catalizzare l'attenzione su di sé pur non essendo un Mick jagger da palco, con un'interpretazione coinvolta e uno sguardo spiritato ipnotizzato forse, dai patchwork visivi che gli venivano proiettati addosso. Ciliegina finale della torta -com'era lecito aspettarsi- gli ospiti! A raccoglierli tutti sul palco di sicuro ci sarebbe certamente stato A. un palco differente B. una location differente (per contenere il) C. pubblico differente (eh sì, eravamo un po' pochi, ma la data non è stata pubblicizzata a dovere). Speravo in un cameo di Andy dei Bluvertigo o di Giorgia, visto che sono spesso a Roma (o meglio, Giorgia ci vive.) invece alla fine c'è stato solo Max Gazzè in tenuta molto casual (“Ma come, noi qua in cravatta e uniforme da pilota e tu ti presenti col “golfino”?” – “E' perché tu sei il pilota e io il passeggero!” Dialogo fra Max e Livio) che ha dato la giusta vena ironica a E' Necessario per poi scendere tra il pubblico e seguire con noi il resto dello show, ed Enrico Ghezzi in una delle sue più classiche Ghezzi Performance: ha “inaugurato” lo show presenziando con uno dei suoi filmati fuori-synch in apertura di Jetlag Effect. Tra le altre canzoni proposte Slow Burn (nella versione originale con Mario Venuti), In-Amore, Need A Call (Enrico non è Martina Topley-Bird, ma la resa è stata decisamente buona) e Where I Am, più una conclusiva Burning Down The house dei Talking Heads regalata nel bis. Prima di concludere un ringraziamento speciale alla Sony BMG che, in un attacco di “furbizia”, non ha rifornito i Jetlag del classico “pacco cd” da esporre al banco e loro, per tutta risposta, hanno regalato ai presenti il Jetlag Promo DVD, una piccola “enciclopedia” sui Jetlag che ne ripercorre la storia e il progetto arricchendolo con video e un live acustico. Magari le case discografiche fossero sempre così astute!