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Sarò sincero, la mia discografia dei Placebo si ferma a Without You I’m Nothing, perché i singoli che vennero presentati di volta in volta per promuovere i lavori successivi mi comunicavano l’idea di essere artefatti, di celare una abissale mancanza di idee e di swing dietro una produzione impeccabile e dietro video ancora più belli.
Cosa mi spinse a comprare Without You I’m Nothing? Il passo doppio di You Don’t Care About Us, quella rabbia a denti stretti che trasudava da ogni singola nota, da ogni singola parola, un distillato di rock ‘n roll. Ecco, lo rimetto nel lettore, per me quella canzone aveva un passo nuovo era fresca e perfetta, ho sempre pensato durasse troppo poco (infatti la mettevo in repeat fino alla nausea). Sarà anche perché era seguita da un brano che trovavo soporifero, Ask for Answers, uno di quei polpettoni interminabili alla placebo che ripetono la stessa idea melodica carina per quasi quattro minuti. E allora vai di repeat. Un altro brano che adoravo era Brick Shithouse. Suonava pienissima, saturava tutto, sparata a tutto volume sul registratore a cassette della mia vecchia Uno procurava piaceri fisici. Poi venne il turno di Allergic (To Thoughts Of Mother Earth) che nel mio cuore sostituì l’ormai lacera Brick Shithouse. Mi piaceva tantissimo quella chitarra presa a cazzotti dell’attacco, che sullo stesso accordo diventava un riff trascinante, roba che Interpol o Editors ancora se lo sognano la notte di scrivere un’intro così per un pezzo. Già, e poi c’era Every You Every Me che dopo una settimana che avevi il disco ti procurava l’irrefrenabile desiderio di rifarla alla chitarra, tanto era felice l’idea melodica che la percorreva, ed era pure semplice. Puro genio.
Ecco cos’era il bello dei Placebo di allora, che con due idee melodiche minimali che erano due sapevano tirarti fuori il capolavoro, e lo facevano come se niente fosse, roba da mandare a stendere intere generazioni di barocchismi da prog band con un sorriso (ok, stavo scherzando, rinfoderate i mitra). Poi riscoprii e capii meglio il primo singolo, Pure Morning, insomma quello che non mi andava giù era la sua ripetitività quasi da club, quasi dance, quasi… Chemical Brothers… hey, è bellissima! (e già la stavi ballando, o la vedevi ballare ondeggiando il capo come un consumato dj hip hop capitato per caso sulla pista o al bancone di qualche oscuro rock club). Industrial per le masse, geniale!
Ma quella che ancora non riesco a togliermi dal cuore, e ancora adesso mi mette i brividi, è Burger Queen, semplice come la sua musa. E non mi importava che il protagonista fosse un androgino depresso, io mi immaginavo questa pallida inserviente del Big Burger, bellissima e poco appariscente, una come tante, ma di quelle che noti dagli occhi, e allora la canzone diventava un inno alla normalità, ai piccoli eroi e alle piccole starlette di ogni merdosissimo giorno, di ogni merdosissimo posto. E mi piace pensare che alla fine, come credevo in tempi non ancora molto interconnessi, il testo dicesse “Things aren’t what they seem / like some burger queen / she’s a burger queen” che poi è lo stesso. E’ lo stesso.