Patti Smith: I seventies: vino o aceto?

Pezzi di storia o Resti storici? Il dubbio torna ogni qualvolta ci si trovi davanti a un Chicchessia che, per le ingrate ma insindacabili ragioni anagrafiche, non si è potuto vedere durante quell’ “apice artistico della propria carriera” su cui i giornali (quelli di oggi, ovviamente!) spendono righe entusiastiche. Ed è tutta una corsa di nostalgici sbarbati verso Chi E’ Rimasto Dai Mitici Anni Settanta, prima che ci lascino del tutto…perché aver sentito un concerto dei Doors la settimana prima che Morrison morisse d’overdose nella propria camera d’albergo non suona esattamente come aver visto i Rolling Stones il giorno prima che Jagger si rompesse il femore! Ed eccoci qua, baby cultori dei tempi e delle musiche andate. Se vendessero delle t-shirt con la scritta “C’ero anch’io” le compreremmo sottobanco. Anche se non lo diciamo siamo tutti intimamente certi (e, vergognosamente, un po’ speranzosi) di stare per assistere ad una rutilante autocelebrazione dell’artista, a uno snocciolare di grandi successi, a un sol grido sulle note di inni generazionali. E non saremo delusi: al contrario del coevo Lou Reed, qualche giorno prima sullo stesso palco, la signora Smith non fa la ritrosa di fronte alla massa assetata delle sue hit, anzi…si concede eccome, tra sorrisi, ringraziamenti, dediche alla buonanima della madre, e strizzate d’occhio varie. Tanto al pubblico occasionale ( “Because the night” e “People have the power” note anche agli ignari) quanto a quello di intenditori (“Dancing barefoot” e la conclusiva “Gloria”) o a quello locale ( la cover di “Amore che vieni Amore che vai”, per grazia divina ricantata in un inglese decoroso piuttosto che nel solito, demagogico italiano alla Stanlio & Olio). Tutto farebbe pensare al solito show di “commemorazione preventiva”, che gli artisti più previdenti organizzano al primo odore di pensionamento. Ma poi scopri che Patti Smith la musica popolare italiana la sta studiando davvero, per farci un disco, e che forse il pezzo di De Andrè non era semplice captatio benevolentiae; poi rifletti sul fatto che le voci degli spettatori sembravano dare la giusta dimensione alle canzoni. E riconosci che, nonostante i tuoi ormonali neancheventanni, quella vecchia rockeuse, malgrado gli anni, malgrado il naso, malgrado l’aspetto da sempre mascolino, questa sera ti è sembrata bellissima: una bellezza che ha poco a che fare con quella delle top model, una bellezza d’altro tipo, un tutt’uno con la voce profonda che le scrosciava dalle labbra e con la musica che le scuoteva le ossa. Una bellezza tanto fisica e sensuale quanto vitale e profonda. Senza piaggerie, una bellezza totale! Dopotutto allora non c’era solo del memorabilia in questo set: era piuttosto di un’onesta voglia di contatto con il popolo – e non con la massa…- l’unica che permette il perdurare della musica di Patti Smith. Mentre l’arcigno collega Lou suonerebbe bene e forse meglio all’interno della propria cantina, senza nessuno ai suoi piedi che pretenda di strillare, i ritornelli della sacerdotessa del punk rock non avrebbero vita senza un coro di voci pronte a seguirli. Forse non era poi così postumo questo live. Forse allora (…credeteci o no, siamo giunti all’happy ending!) non siamo arrivati poi così tardi e, malgrado trent’anni buoni, abbiamo fatto in tempo a prendercelo, almeno un pezzetto di quell’”apice creativo”.

le foto non si riferiscono alla data recensita