Santo Niente – Il fiore dell'agave

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Qualche settimana fa, curiosando in giro nei blog, mi imbatto in quello di Umberto Palazzo, dove trovo la seguente dichiarazione: “Direi che il rock italiano ha raggiunto il punto di non ritorno. […] Forse ci vorranno anni prima che possa esistere nuovamente qualcosa di simile ad una scena decente o almeno presentabile […] Se non avessi letto un po’ ovunque che i Baustelle sono una grande band (e “la malavita” è un capolavoro) e li avessi solo ascoltati, li avrei senz’altro scambiati per una delle tante band “ggiovani” create a tavolino dall’industria, tipo Velvet e altre meteore radiofonico-sanremesi. Assistere a un loro concerto ha peggiorato irrimediabilmente le cose. Sono blandi e addomesticati. Da quando ciò è diventato un pregio, per Dio?”
Ora, posto che si possa pensare quello che si vuole sui Baustelle (e secondo me restano un ottimo gruppo, meritevole di saper coniugare, come nessuno ha finora mai fatto in italia, l’anestetico e la cura), questa è a tutti gli effetti la riflessione di un indiegeno che guarda con sufficienza dagli abissi del suo cuore di tenebra allo scomposto entusiasmo dei nuovi coloni. Certo, è un fiore dell’agave quello, non lo vedete?
Umberto Palazzo queste cose le faceva, e le faceva in tempi non sospetti, è un vecchio sopravvissuto al reflusso della prima ondata, che gloriosamente, perché silenziosamente, cambiò le sorti di alcuni (e lasciò indifferenti altri) nell’allora boccheggiante panorama d’acquario della musica italiana. La prima ondata, quella fatta di consorzi, di live acustici dei C.s.i., di band prodotte perché ricordavano al buon Lindo Ferretti i suoi esordi rumorosi, di colonne sonore di qualche nuovo (buono o meno buono, ma comunque nuovo) film italiano, tra il plexiglass di rosemary e i primi vagiti dei Verdena, e come sottofondo il lento incedere di Manuel Agnelli e dei suoi Afterhours.
Ma la riflessione di Umberto Palazzo ha per giunta l’indubbio merito di farci sbattere il nostro leggiadro italico nasetto contro una caratteristica importantissima e costitutiva del rock: il rock è dinamitardo, dice parole indicibili, e fa rumore, deve far rumore, e per giunta fastidioso.
Umberto Palazzo non ha il sangue degli Afterhours, non ha la raffinatezza dei Marlene, e tuttavia pesca a piene mani da entrambi, o quanto meno da un patrimonio comune (Luna Viola, Spirituale), e crea un genere, un vocabolario dell’uso, e dei cliché per il sottobosco alternativo italiano, piacevolmente liberandoci dalla necessità del sublime, fornendoci finalmente un tono medio, e lo fa con la spezia di un tono onestamente un po’ più punk (nel senso esistenziale del termine) rispetto ai suoi colleghi. Ma gli episodi più memorabili del disco sono quelli in cui Umberto Palazzo libera il suo estro e fa da solo. Nascono così il memorabile chorus 80’s di Facce di nylon che si installa su un serrato giro surf, il lisergico nonsense di Occhiali scuri al mattino (peraltro titolo bellissimo), l’oscura trama preziosa di Santuario, con la sua urbanità cupa di sepolcri imbiancati (la tv dice tutto tranne la verità, ad un posto di blocco, si impara l’umiltà). E ancora l’idea melodica di Nuove cicatrici, la narcolessia diurna di Candele, e in coda due brani ipnotici come solo il sole in testa dell’una in agosto, e così italianamente post-rock. E così si congeda, Umberto Palazzo, con una certa calma e con una certa classe: “mi sembra di sparire di diventare immateriale […] io vi amo maledetti, vi amo tutti”. E da qualche parte, non so perché, e non so perché lo dico, mi è parso di scorgere lo spirito di Andrea Pazienza. Si aggiunga che i suoni, anche negli episodi più morbidi, sono rombanti come ormai non capitava più di ascoltare da tempo. Assolutamente da provare.