Matmata – Matmata

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Conobbi i Matmata qualche anno fa, capitando per caso ad un loro concerto quando questo disco non era ancora stato pubblicato. Con il senno di poi, si sa, è sempre troppo facile tracciare bilanci, ma quando affermo che il gruppo a pochi metri da me, sul palco, aveva l’urgenza e l’impatto di un fulmine a ciel sereno non faccio che parlarne sinceramente. Il trio di Orzinuovi (BS) aveva senza riserva alcuna le carte in regola per farsi strada agevolmente nel fitto sottobosco del rock nostrano (c’è spazio per tutti, no?): impressione condivisa probabilmente da tutti i presenti, ai quali fu subito ben chiaro che quello on stage era ben altro che un ingenuo gruppetto “di paese”. Tornando al presente (e sono passati tre anni!), va precisato che tali mie rosee previsioni non si sono concretizzate affatto e questa non può che essere considerata una strana casualità, in quanto i Matmata non mancavano veramente di nulla e fin da subito vincevano a man bassa il confronto con i più fortunati colleghi Verdena (che qualche anno prima avevano fatto sfracelli in ambito “alternative”): E’ appunto spogliando la matrice più grezza degli amici bergamaschi che i nostri riescono ad amalgamare ruvidità e delicatezze diluendo il tutto in qualcosa di molto viscerale e personale. (Si ascolti la coraggiosa “Un circo”). Gianmario Ragazzi, fulcro poliedrico del gruppo, stende un trattato di esperienze private, amori e disagi che denotano e attivano diverse condizioni umorali, alternando momenti accorati (“Sa il mio nome”), a pure esplosioni elettriche (“Forse è meglio”, ”12 ottobre 1996”);mescolando soluzioni tratte da tutto ciò che ha saputo, in ambito rock, forgiare le loro menti di musicisti in questi anni: si parte da una costante prettamente alternative anni ’90 (e mi vengono in mente certe impalcature nirvaniane…), passando per i Radiohead più dilatati (la intro di “In me”), fino ad approdare alle più recenti soluzioni dei Muse. L’influenza di questi ultimi, gruppo che andava parecchio qualche primavera fa e al quale furono subito accostati i Matmata sostanzialmente per le affinità di impostazione vocale fra Bellamy e Ragazzi, appare si innegabile qua e là, ma ridurre la personalità dei nostri bollandoli come plagiari (cosa che qualcuno pensò bene di fare….) mi sembra francamente un giudizio inopportuno e interamente derivato da un’analisi dei fatti poco obbiettiva. In comune hanno sicuramente qualcosa: il fatto di possedere entrambi dei cantanti eccezionali; musicalmente, invece, le somiglianze mi sembrano più marginali e “tirate per i capelli”. Il disco nel complesso regala grandi emozioni all’ascoltatore, non risultando mai banale ma perdendo molto della freschezza iniziale man mano che ci si addentra nel cuore del lavoro stesso. In particolar modo la versione riarrangiata di “Sa il mio nome” non convince appieno, con i suoi falsetti esasperati e il ritmo esageratamente rallentato: molto meglio l’originale, che con quel pianoforte a batter tempo sulle evoluzioni di Ragazzi, si auto-incorona di diritto miglior pezzo del disco. Ma con un singolo così (uscì appunto un EP a titolo “Sa il mio nome” in anticipo rispetto all’album), come si spiega il fatto che a distanza di tre anni i Matmata siano ancora pressochè sconosciuti? Perché alla Edel non seppero( o non vollero?) sfruttare la possibilità di sparare un colpo sicuro a pochi passi dal bersaglio? Mistero.