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Ho imparato da tempo a non fidarmi del “disco nuovo”. Perché questo qui è il classico “disco nuovo”, quello che vai a lezione una mattina e un amico ti dice «oh ieri è uscito il disco nuovo dei Red Sparowes», e tu ti ricordi quanto hai amato il precedente disco (sì, si parla di sindrome da “disco nuovo” solo quando il precedente era un capolavoro o poco meno) e neanche ti viene voglia di comprarlo. E’ quella sensazione che hai quando sai che al novantanove per cento delle probabilità ti comprerai un disco che ti piacerà forse solo la metà del precedente e ti lascerà l’amaro in bocca per mesi. Sapore di prevista delusione, dai.
Ho imparato da tempo, e ci ricasco ogni volta. Riassumendo brevemente, Red Sparowes è un nome che raccoglie in sé gente di Battle of Mice, Isis, Neurosis, Halifax Pier, gente che suona esattamente quello che state immaginando e, almeno per quanto riguarda il disco d’esordio, lo suonava con una freschezza, una varietà di arrangiamenti e una cura del suono pressochè spaventosa.
Cosa è successo quindi ai nostri eroi? Semplice: hanno pubblicato questo “disco nuovo” a distanza di poco più di un anno dal precedente, lo hanno strutturato come un concept sul periodo del Grande Balzo in Avanti in Cina – che di questi tempi tira parecchio – e, cosa peggiore di tutte, lo hanno scritto con neanche un decimo dell’ispirazione per la quale li conoscevamo. Il risultato è una mattonata post-rock strumentale di un’ora dove la classe delle chitarre di Caxide e Graham, non proprio gli ultimi arrivati, si perde in un mare di confusi momenti distorti e dilatazioni fini a sé stesse; le melodie che di quando in quando colpiscono hanno spesso un retrogusto di autocitazione, i suoni ricchi e profondi del primo disco sono pallidi ricordi.
Dopo questa scarica di critiche probabilmente esacerbata (amo questa parola, la pronuncio tipo mantra almeno quattro-cinque volte al giorno) dalla suddetta, seppur supposta, delusione, resta comunque da dire che i Red Sparowes sono i Red Sparowes ed un disco post-rock smoscio loro è meglio di gran parte del resto del panorama, e basta ascoltare l’attacco galoppante di “The Great Leap Forward…” o le atmosfere desertiche (un po’ ultimi Earth, sì) di “A Message of Avarice Rained Down Upon Us…” per rendersi conto della notevole coesione e competenza del gruppo, quando c’è qualcosa da dire. Insomma, non tutto da buttare, anzi, una metà di disco tutto sommato bella.
I dubbi espressi qualche riga sopra sono riferiti in gran parte a tracce come la seconda o la terza, totalmente inutili, scialbe e inascoltabili nella loro interezza senza legarsi le mani per evitare di premere il tasto skip, dove sembra quasi di ascoltare un altro gruppo.
Perché? Perché dopo appena un anno tirare fuori un disco con pochi spunti, molta prevedibilità, troppo manierismo e facili soluzioni di genere ottenendo una versione noiosa, verbosa e non a fuoco di quello che poteva essere un secondo disco godibilissimo?