Jonathan Demme: Heart of Gold

Dove vanno a finire la cameratura nervosa, le luci intermittenti, i piani sulla folla in delirio quando le rockstar che stai riprendendo non scendono sotto i cinquantanni a capoccia? I ricordi di Neil Young e dei suoi amici risalgono ai bei tempi in cui rockumentari come questo spopolavano anche nelle sale, e Jonathan Demme non può proprio permettersi facili slanci giovanilistici: se ne sta lì, dietro l’obiettivo ad osservare, paziente e profondo, le rughe che s’increspano sulla fronte del non più giovane Young. I piani e il montaggio, lenti e solenni, si adattano perfettamente al clima della serata, particolarmente intenso quando le luci si abbassano e il nostro rimane solo sul palco, con la vecchia chitarra di Hank Williams a scivolargli tra le dita. La musica è (memorabilia a parte) quella di Prairie Wind che anche dal vivo suona da Dio, tanto più quando si avvale dei fiati di Memphis: l’intervento celebrale che Young dovrà subire di lì a pochi giorni, e il ricordo commosso del padre, scomparso due mesi prima, pongono questa serata d’anteprima in bilico fra due grandi dolori personali e le regalano un’atmosfera unica, sofferta e sentita. D’innanzi all’affezionato pubblico di Nashville il cantautore è loquace, simpatico, disposto a darsi al suo meglio e a richiamare in toto le sue radici. Perchè se lui negli anni è stato capace di rinnovare sé e il suo stile più di molti suoi contemporanei, per la squadra del Ryman Auditorium il tempo sembra essersi totalmente fermato: cappelli da cowboy, un bassista pellerossa, i neri vestiti da blues brothers e le coriste che sembrano uscite da “La casa della prateria”…è qualcosa che ormai puoi proporre solo più nel Tennessee. Un immaginario incredibilmente cristallizzato che ricorda da vicino il compianto Robert Altman: quello di “Nashville”, ovvio, ma più ancora l’ultimo, quello che si congedava con la giostra delle tristi macchiette di “Radio America”. E come quei personaggi, lo Young solitario che, a festa finita, suona la chitarra sui titoli di coda per poi lasciare un Auditorium deserto, ha il sapore dolceamaro dell’addio.