Paolo Benvegnù: Kindergarten Tour – Anche il bianco ha i suoi colori

Labbra contratte, presenza imponente, impetuosa. Quei denti sono spesso in vista, la bocca si apre non solo a cantare. Incita incattivita i compagni di palco. Esprime una ferma volontà.
Paolo Benvegnù vuole andare avanti (“andare fuori / dalle case / da noi stessi”), con parole sboccate dal petto, esplose un attimo prima che venissero soffocate. Pentimenti celebrati in pubblico. Ci lancia un sguardo, e capiamo che è qualcosa di indefinito e prezioso – un errore, o forse un’involontaria concessione, prima di voltare le spalle “e fermarsi un istante / per considerare / che il respiro è un dettaglio / che ci rende uguali”.
Il “Kindergarten Tour” è un mini-tour di autofinanziamento per svincolarsi dal contratto con l’attuale etichetta discografica, operazione piuttosto onerosa ma necessaria a far uscire un disco in realtà già pronto da mesi, e presentato in queste date sperimentali. Il concerto ha uno strano sapore, un impatto devastante, caotico, sparato, ansimante. Abbiamo di fronte uno spettacolo che sa di rivalsa, un’occhiata fulminante a quel sistema che imbriglia le sue creature; e il labiale incazzato che urla più e più volte “andiamo!!!” ai musicisti ci giunge chiaro, e fa da guida ai nuovi pezzi. E’ un Benvegnù che ingrossa le sue canzoni, perché la visione che se ne ha è decisamente frontale, psicodramamtica. La ritmica sagoma con veemenza gli inediti, che a tratti sembrano reading, monologhi per voce e beat di cassa-rullante tramite i quali il messaggio ultimo da esprimere è il desiderio (ma ancor più, la necessità) di esserci, su quel palco.
Quella di Bergamo è la prima data del tour, e l’impressione è che nonostante il motore non lavori sempre lucidamente comunque non possa evitare di tenere i giri oltre il limite, perché almeno questa sera, esattamente qui e ora, c’è un motivo. E la voce di Paolo è come la corsa di una bestia selvaggia e possente, vuole girare le carte subito, ci rovescia addosso le note e il volume sale, e sale ancora, sembra seguire la sua coscienza fino a cancellare ogni intenzione. Fino a lanciare nell’etere la sola pulsione.
Il teatro è dentro Benvegnù; il sangue ossigenato si sente – che batte, e scoppia. Il sudore è cantato. Ha un suo specifico timbro. Si appoggia sulle corde vocali e scurisce le note. Siamo tutti dentro quei pezzi, nuovi o vecchi che siano. Il concerto è un’escursione: prima esploriamo, fatichiamo, aspettiamo, scopriamo; poi ritorniamo, riconosciamo, ricordiamo. “Io e te / siamo quei venti / che cambiano i deserti”, e cambiamo anche noi: siamo suggestionabili, è vero. Trovandoti così emotivo ci lasciamo dominare dai cenni e dalle impressioni. Dalle tue espressioni. E sebbene questa valanga di suoni si confonda e non sia vestita da sera, nonostante il retrogusto sia meno lirico di quanto ci si potesse aspettare, è stato come doveva essere. “Come scavare a mani nude nella terra / per sentire il sangue mescolarsi con la pioggia”. E credo che siamo improvvisamente ritornati primitivi, e capisco quando ti succede di dire “io non so perché / la uccido”.
Con frenesia, per tutto il tempo, ci hai strappato le parole di bocca, le meningi di mente; non hai detto altro che il vero, vissuto altro che il vivo. E’ bastato esserci per confondersi con te.
E’ una lunga notte / ma più stupido è il mattino”.