Con il concerto di stasera ho chiuso con questo gruppo. Passi un disco sbagliato e eccessivamente easy listening come l’ultimo “Somewhere Else”, ma quel che ho visto stasera è troppo anche per un ascoltatore tollerante come me. Ho difeso i marillion di Steve Hogarth dalle più aspre critiche, dai tempi in cui ai loro concerti c’era sempre qualche simpaticone che pretendeva l’esecuzione di una “Fugazi” o di una “Forgotten Sons”. Ho amato e amo tuttora l’era Hogarth, anche più del new prog dei primi album con Fish. Ma il troppo è troppo. Veniamo al dunque, ovvero al concerto che i nostri hanno tenuto all’Auditorium FLOG di Firenze il 23/04/2007, per la cronaca il primo di 4 concerti che i nostri hanno in programma in giro per il Bel Paese. Locale gremito, un’atmosfera di generale allegria che a breve avrebbe svelato i suoi perché. L’attacco del concerto è affidata al brano che apre “Somewhere Else”, ovvero al rockettino energetico di “The other half”. “Ci sta”, mi dico, dopotutto per aprire un concerto un brano piuttosto “tirato” è accettabile e del tutto in sintonia con la logica di una rock band. Peccato che sia solo l’inizio di una carrellata interminabile di quelle scelleratezze che i nostri amano includere in ogni album. Passano dunque in orbita le varie “See it like a baby”, “Separated out”, “The damage”, “You’re gone”, ovvero le canzoni più insignificanti del loro repertorio, quelle che nei dischi concedi loro perchè sai che in cambio ti regalano gemme che risplendono di emozioni infinite. Troppo spazio all’ultimo disco, non un brano da “Brave”, l’album chiave dell’intera carriera di questi Marillion. Le buone notizie arrivano durante i bis, in cui i nostri mostrano la loro vera natura inanellando 3 classiconi come “Easter”, “Splintering Heart” e “Neverland”. Tirando le somme, su due ore e passa di concerto i Marillion hanno parlato al cuore per totali 20 minuti scarsi. Niente da dire sulla performance del gruppo, come sempre di altissimo livello, nonostante un vistosissimo errore in apertura di concerto che può capitare anche ai grandi. Tuttavia, questa è una magrissima consolazione per chi come me si aspettava di vedere i Marillion e non un gruppo di alternative rock impegnato ad intrattenere i balli e le limonate delle troppe coppiette di adolescenti accorse, la cui presenza la dice lunga sul target a cui i Marillion mirano oggi. La loro non è più una musica che vuol dar rifugio alla spiccata sensibilità di giovani leggermente schivi. E’ un rockettino che accompagna le frivolezze di chi è spensierato e in pace con sé stesso e con la sua leggerezza. E’ musica per riempire un Ipod, una selezione ragionata di hit singles da caricare durante un trasferimento urbano in autobus o durante una sessione di tapis roulant in palestra. Una musica da aperitivo prima di una cena con amici. Ovvero tutto quello da cui una volta scappavamo, sapendo di poter trovare in certa musica (leggasi “Out of this world”, “The great escape”, “This is the 21st century”…) l’oasi ideale per i nostri pensieri più decadenti e reconditi. E’ un tradimento. Di quelli dolorosi. Proprio come è stato per i fiorentini vedere Baggio con la maglia della Juve, o per Re Artù sapere dell’amore tra Lancillotto e Ginevra. Un tradimento che non si perdona. Quanto ho visto a questo concerto mi ha fatto anche ricredere sull’ultima parte della recensione di “Somewhere else”, in cui mi congedavo pronosticando un disastro commerciale. Credo che non sarà così. Questi Marillion piacciono. Non sono così abili e scaltri da poter convivere con le pretese di una major, ma piacciono sufficientemente. Mille altre considerazioni giungerebbero alla mia penna circa le responsabilità indirette di questo scempio, che in realtà nasconde una enorme perdita artistica. Ma preferisco sorvolare e rivolgere speranze, energie e lodi ai Gazpacho. Goodbye Marillion.