Red Sparowes: Mechanical Sounds Cascaded Through the City

Autore: Gabriele De Seta

Uno sbava sopra un disco per mesi e mesi, poi puff di colpo si trova i Red Sparowes dietro casa, a dieci euro, senza dover neanche mettere benzina in macchina. Come non esserne felici? E sì che il da poco uscito “Every Red Heart Shines Toward the Red Sun” non arriva ai livelli qualitativi del loro album precedente, ma le sue gran belle canzoni le ha, quindi stasera tutti al Circolo degli Artisti.
In un previsto pienone che poi non c’è (sovrastimavo la quantità di indiboi post-qualcosa), suonano i Tomydeepestego. Boh, bravi, molto Isis con un pizzico di movimento in più, ma spesso affiora il pericoloso effetto “scatola vuota”, spuntano clichè slavati e vecchi – ma vecchi già da appena nati – ora però lascio stare il discorso, che sarebbe lungo da affrontare. I Tomydeepestego suonano il solito post-metal allungato con sbrodolature del solito post-rock rinchiusi dentro un recinto stilistico davvero stretto, ed è incredibile quanto una “scena” possa chiudersi su se stessa diventando, da musica in qualche modo di “rottura” rispetto agli stilemi della forma-canzone, rigidamente codificata e stereotipata. Non che suonino male, anzi.
A seguire ci stanno i Doomriser, ma io non ho capito cosa c’entrano. Certo, sempre meglio che i Tomydeepestego II – la Vendetta, però mettere i Doomriser prima dei Red Sparowes è come far aprire una conferenza di Umberto Eco con un intervento di Claudio Amendola in canottiera unta. Comunque bravi, certo, rendono meglio in un festival doom a caso, ma vedere il bassista fare gli occhi spiritati è sempre una presa a bene totale.
Parliamo invece di quei sei ragazzotti americani che tanto mi han fatto emozionare (nonostante sia risaputo che io non ho emozioni) con il loro primo disco, quei ragazzotti americani che salgono sul palco e attaccano a suonare con alle spalle un bel video che incrementa di qualche punto netto il voto della serata, non proprio un capolavoro (come possono essere quelli che si portano dietro, tanto per dire, i Porcupine Tree), ma pur sempre un grande aiuto alla presenza scenica. Atmosfere apocalittiche, demolizioni di opere architettoniche, locuste, passeri, qualche faccia orientale random, insomma la musica parla di questo, e questo ci fanno vedere. Si parte con l’inaspettata seconda traccia del primo disco – tracce delle quali non farò i nomi perchè sennò dobbiamo comprare altri 32 mega di host data la lunghezza – e si va avanti per un’ora e mezza con un repertorio ovviamente rivolto (purtroppo, sigh) all’ultimo disco. Peccato, perchè secondo me c’è una gran differenza tra la capacità di sintesi delle vecchie tracce rispetto alle nuove che, per carità, son molto belle, ma un po’ più canoniche e a tratti prolisse. Io insomma ho registrato brividi solo con “A Message of Avarice Rained Down Upon Us and Carried Us Away to False Dreams of Endless Riches”, molto rilassata e liquida, con apici di commozione quando hanno attacco il loro capolavoro “Alone and Unaware, the Landscape Was Transformed in Front of Our Eyes”, con il meravoglioso crescendo accompagnato da nervose immagini di una clustrofobica corsa in treno. Primo appunto: il suono, molto buono come resa, ma al quale manca qualcosa. Ci si accorge che i Red Sparowes su disco fanno una grande attenzione alla produzione, cosa indispensabile per gestire tre chitarre e un basso che non lavorano quasi mai all’unisono; dal vivo però per quanto il tutto fosse perfetto si nota la mancanza dei volumi precisissimi, delle dinamiche curatissime e dei crescendo ben calibrati. Insomma, per quanto io di solito apprezzi la ruvidezza del live rispetto alla plasticosità del cd, in questo caso sono costretto a ammettere che – tristezza – mi piacciono più su disco. Secondo appunto: il finale. C’è stato il rischio di sfociare nel finale a cazzeggio noise-wannabe che ormai è la prassi per praticamente qualsiasi gruppo (mentre è una cosa che possono permettersi solo gli Unsane). Per fortuna, appena ho iniziato a pensare “no, non possono finire a spingere pedali a caso pure loro” ecco che – le luci si alzano e si abbassano – rullata e silenzio. Ottimo. Se non fosse che poi sono rientrati – altra pratica odiatissima che ormai qualunque gruppo pensa di potersi permettere – per fare una canzone alquanto noiosa che, forse perchè era ormai un’ora e mezza che suonavano, forse perchè era un pezzo di per sé non esaltante, ha contribuito a raffreddare ulteriormente l’atmosfera. C’è affiatamento, personalità, professionalità e senza dubbio grandi idee. Manca un po’ di coinvolgimento. L'ho detto.
Per chiunque non fosse soddisfatto dalla mia opinione asettica e glaciale c’è qui sotto la recensione della stimata collega Giuditta C., che sicuramente soddisferà i lettori più intransigenti e sensibili alle critiche a volte esagerate.

Autore: Giuditta C.

Premesso: se due anni fa qualcuno mi avesse detto che sarei rimasta annichilita di fronte ad un’ora e passa di musica puramente strumentale, no, non c’avrei creduto.
Non sono così tecnica e ferrata quanto il saccentone qui sopra per lanciarmi in dissertazioni approfondite sui picchi e anelli deboli di questa esibizione. Forse anche per questo nell’annosa diatriba note/parole mi sono sempre schierata a favore di queste ultime, una sicurezza – spesso un’ancora di salvezza – un linguaggio per me maggiormente decodificabile e rispetto al quale poter scegliere, potermi emozionare, poter provare a scavare a fondo per ottenere ciò che dalla musica m’aspetto: sensazioni che siano solo mie attraverso le sensazioni, le note e le parole di qualcun altro. Non mi metterò qui a scrivere che il mio punto di vista, ora, è totalmente cambiato; non è grazie ai Red Sparowes che adesso serro i battenti di fronte al linguaggio tradizionalmente inteso. Mi auguro solo che queste righe riescano almeno in parte a rendervi partecipi del senso di totale spiazzamento di fronte alla loro musica. Anche se sono convinta che si tratti di un’esperienza troppo personale per poter essere trasmessa.
Ma procediamo con ordine: preparata dalle maledizioni di vari ed eventuali adepti al culto di Neurosis et similia impossibilitati a presenziare l’ultima delle due date di questa band in Italia, ma d’altra parte da questi ultimi anche saggiamente consigliata nei mesi scorsi circa il percorso da intraprendere per avvicinarmi a musica del genere, mi ritrovo davanti al Circolo decisamente incuriosita. Niente indieboys post-qualcosa, molte persone normali ed entusiaste per la sortita romana di questo divertissement musicale ormai alla prova del nove dopo due lavori per me assolutamente equivalenti sul piano del valore. Condivido appieno il giudizio di Gabriele sui due gruppi d’apertura: i Tommydeepestego, suonano con grande passione, sono tecnici e si vede ma purtroppo scivolano via fra il già visto e già sentito e una quantità industriale di sigarette fumate nel giardino del locale. I Doomraiser invece no, non scivolano via perché un grado così alto di “ignoranza” così platealmente e orgogliosamente mostrato era da tempo che non lo vedevo. Mai paragone fu più calzante, l’effetto è proprio quello di far presentare una conferenza di Umberto Eco a Claudio Amendola con la canottiera unta di fritto. E anzi aggiungo che non sono bravi. O meglio mi suscitano l’ effetto a metà strada fra il riso, il fastidio e la vergogna. Ma io il doom non lo sopporto. O forse non ci capisco nulla. In ogni caso, a prescindere da facili e superficiali giudizi di valore e merito, i Doomraiser stasera non c’entrano affatto. Come far aprire il concerto dei Tool ai Mastodon. Ecco, più o meno l’effetto e’ simile.
A differenza di chi ha scritto prima di me, all’esibizione dei Red Sparowes non riesco a muovere neppure una critica. Proprio come chi ha scritto prima di me, invece, posso dirvi per certo che i Red Sparowes mi hanno fatto emozionare e nemmeno io riesco a emozionarmi facilmente, di solito. Salgono sul palco senza che neppure me ne renda conto, quasi incerti e vergognosi, quasi fossero capitati là per caso. Quello che di solito fanno le parole, stasera lo fanno le immagini – immagini dietro le quali si nasconde Josh Graham- che forse riescono a dire molto più delle parole. Colori in dissolvenza, sfumano e si addensano per poi ricomporsi attorno al rosso, al verde e l’ocra. E il bianco e nero a suggerire scenari di devastazione, che ti rimangono dentro come un nodo in gola per poi esplodere in un effetto di assoluta semplicità. Un effetto in cui l’apocalittico è solo accennato e tutto il resto lo fa il muro sonoro che attorno a queste immagini cresce, si ferma e poi riparte. Certe sfumature, alcuni effetti e una serie infinita di spunti su disco rischi di non riuscire a coglierli e contestualizzarli se di fronte non ti trovi un’ immagine o una parola cui aggrapparti; la carica emotiva di queste immagini è riuscita a rendere quello che a questa musica curatissima – sia su disco che dal vivo- mancava: il senso. Un effetto spaventoso, molto più potente di tante, troppe parole che ti costringono a capire e interpretare. Quando invece hai la possibilità di poter dare tu un senso a quello che senti.
Abbandonarsi è l’unica soluzione per non rimanere semplicemente basiti di fronte a tutto questo, sprofondare in un’atmosfera che riesce ad essere claustrofobica e subito dopo, con la massima disinvoltura, a trasformarsi nel più aperto degli spazi. Questa credo sia l’unica chiave di lettura per un’esibizione del genere.
Non importa che poi a contorno non venga detta neppure una parola. Non importa che i Red Sparowes siano campioni d’autismo e di freddezza: il senso l’ho trovato e questo alla fine è ciò che conta. Molto più di mille parole.
Una volta, un tale di nome T.S Eliot ha scritto che un’opera d’arte, per essere efficace per chi la recepisce, deve far dissolvere totalmente chi la crea. Ecco questo è quello che hanno fatto i Red Sparowes.

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