Novembre – The Blue

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Mi ritrovo nella buca delle lettere un promo e ci leggo sopra Novembre e resto un attimo stranito. ‘Materia’ è uscito l’anno scorso e trovarsi già tra le mani un loro nuovo lavoro fa strano per chi è abituato come me ad attese estenuanti, sempre pienamente giustificate, tra un’uscita e l’altra della band capitolina. Probabilmente la realtà “metal” italiana al momento più degna di essere considerata a livello internazionale, i Novembre sembrano essere entrati in uno stato di grazia, con una formazione solida e una rodata attività live, forti di un passato qualitativamente ineccepibile e ormai maturi riguardo songwriting e personalità del suono, maturità a dire il vero raggiunta sin dalle atmosfere asfissianti e dissonanti di quel gran disco a nome ‘Classica’ che vedeva la luce ben sette anni fa. Così come ‘Materia’ era un passo laterale rispetto alla monolitica perfezione del loro capolavoro ‘Novembrine Waltz’, un’esplorazione di territori più morbidi e timidamente più rock, a tratti dagli echi cantautoriali, questo ‘The Blue’ tenta un approdo ragionato e ben architettato a lidi più tirati, quasi una controparte dura dell’uscita precedente, a ribadire che il lavoro fatto in passato e la passione per il death metal non sono acqua passata. E ci riesce, senza scadere in prevedibilità e riempitivi, con classe e fermezza: non si sbaglia un colpo per le prime cinque splendide canzoni, meno eccentriche, più veloci incalzanti e ancora più orientate ad una certa coesione strutturale rispetto ai loro pezzi più riusciti, pur sempre forti di arrangiamenti e perizia strumentale non comuni. Spunta la voce femminile in “Nascence”, tornano abbondanti dosi del sofferto screaming di Carmelo, Giuseppe Orlando riprende a usare quantità di doppia cassa che non si sentivano da un paio di uscite, “Zenith” supera i sette minuti con una carica emozionale – e nostalgica, per chi coglierà la melodia ripresa – non indifferente, tutto collima alla perfezione e a questo punto verrebbe da chiedersi perché non lo si riesce a considerare il loro miglior album, dopo tutto. La risposta è in alcuni piccoli tocchi, spunti e leggeri manierismi che ogni tanto emergono e silenziosamente guastano la magia che spesso i pezzi sprigionano. Qualche attacco un po’ scontato, due tre chiusure di pezzi che lasciano un sapore di incompleto e di potenzialità mal sfruttata (“Bluecracy” e “Architheme”, per dire, mi aspettavo lo stacco, l’apertura, invece disillusioni affogate nel fade out), una produzione forse troppo rifinita che a volte non lascia emergere l’anima degli stacchi acustici e atmosferici, minimi tocchi che magari percepisco solo io avendo consumato e conoscendo a memoria, ai tempi, tutte le loro precedenti uscite, minimi tocchi che hanno un peso in fondo risibile e innocuo sul giudizio finale: tra i cinque migliori lavori metal dell’anno.