Fightcast – Breeding a Divinity

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Una volta c’erano i metallari che erano quelli puzzolenti, zozzi, antipatici, musoni, satanici, sudati, isolazionisti, trasandati e con i Dismember nel lettore cd ammaccato. Oggi c’è la maglia attillata, il capello spalmato, gli occhialetti dalla montatura spessa, il riciclo metalcore che non accenna a rigurgitare gruppi tutti indiscutibilmente distruttivi, bombastici, moderni e pesanti che promettono di spazzarci via con il loro impareggiabile muro di suono (tutto questo dal press sheet della neonata Kolony Records: felicitazioni), e io ogni volta ci casco, metto il disco nel lettore, e mi arrabbio. Perché non se ne può più: non si fa musica con alchimie random – e prevedibilissime, ormai so come vanno avanti le canzoni e i pattern di batteria senza manco ascoltare tutto il disco – di x stacchi mosh, y riff maideniani, z coretti armonizzati dallo stantìo retrogusto emo d’accatto, non si millantano influenze swedish quali In Flames e Soilwork, perché quei gruppi sono stati IL metal svedese, e anche se oggi si divertono a fare canzoncine orecchiabili con una classe che voi vi sognate, ogni disco che tirano fuori annualmente c’ha i pezzi, ha le melodie, ha il tiro, cosa che voi – un “voi” generale, ma non troppo – non otterrete mai continuando a decostruire e riassemblare tipo lego i soliti quattro-cinque stereotipi. La differenza tra questo disco e l’ultimo degli Unearth, per dire, è che qui ci sono un paio di pezzi simpatici e più coesi che riescono a passare la sufficienza, mentre lì c’è conoscenza approfondita del metal e passione per un certo sound che, seppur in chiave moderna e con nessuna intuizione geniale, viene riproposto in una forma non ridicola e coerente.
Ovviamente la produzione di questo disco dei Fightcast è ineccepibile, la cura dei dettagli meticolosa, una patina gradevolissima di bei suoni che non basta, e non basterà mai, a rendere buona musica operazioni di questo tipo.

Ah, l’ultimo è un pezzo tipo industrial/glitch. Utile.