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Peter Wichers fa ciao ciao con la manina e torna in Tennessee, i Soilwork si ritrovano col culo a terra, chiamano il solito Devin Townsend dietro il mixer sperando di riuscire a mettere insieme qualcosa che li riporti ai fasti di ‘Natural Born Chaos’, non ci riescono e a noi ci tocca un disco mai così moscio e monotono. A vederli dal vivo tutto sembra reggere ancora, i pezzi vecchi continuano a riuscir bene, quelli nuovi sono immediati e orecchiabili al punto giusto, anzi, forse troppo, ma quando si mette su il disco e si preme play beh, la storia è un’altra: riffettini veloci e sincopati strappati da qualche gruppetto metalcore d’oltremanica, assoli quasi spariti – o scontatissimi, canzoni prevedibilissime e cascate di bridge e ritornelli che rallentano in un (de)crescendo di zuccherosità qualsiasi pezzo del disco, perfino la più old-school The Pittsburgh Syndrome. Non che la prima metà disco, con la suddetta traccia, la title-track e un paio di altri pezzi (Breeding Thorns, I, Vermin) non regga la prima settimana di ascolti senza regalare un po’ di divertimento a basso prezzo, il vero problema è il resto della tracklist piena di riempitivi e dinamiche piatte, per nulla graffiante e sinceramente inascoltabile senza un pizzico di irritazione, persino come disco da autoradio. E’ ovvio che non si può andare avanti tra ritmiche e chitarre strappate di peso ai peggiori Darkest Hour, autoplagi (vedi: attacco del singolone Exile e di Your Beloved Scapegoat), prestiti spudorati (vedi: attacco di Silent Bullet e Reflect the Storm degli In Flames), canzoni rette da strutture terribilmente banali e prive di qualsiasi appiglio (vedi: tutta la seconda metà tranne un paio di pezzi a malapena sufficienti). E a noi i Soilwork più groove e maranza degli ultimi due dischi andavano benissimo…