La critica sonnecchia o fa finta di nulla, ma è un bel po’ di tempo che le chitarre di Bruce Springsteen non suonano più la stessa canzone. Non si tratta del classico e inesorabile cambio della casacca da incendiario con quella da pompiere, ma piuttosto di una ponderata rinuncia ad usare chitarra e armonica come armi di guerriglia e a fare da ‘spina nel fianco’ per l’establishment americano. E’ un passaggio, graduale ma sistematico, da una critica disinteressata e orgogliosamente fuori dalla Grande Macchina al motto tipicamente moderatista del “lavorare dall’interno del sistema”. Lo sfoggio di muscoli ed elettricità, che in ‘War’ o ‘Born in the Usa’ si (mal)sopportava in virtù di un’indubbia efficacia comunicativa o nel nome dell’ “autenticità” filoproletaria, ora servono tutt’altra causa.
Proprio ‘Born in the Usa’ fu indirettamente all’origine del processo, riproposta in rotazione massiccia dalle radioemittenti americane durante i giorni immediatamente successivi all’attentato dell’11 settembre: nel tentativo di pompare lo spirito patriottico dei propri concittadini i censori cascarono in un errore grossolano, non tenendo in conto il tono sarcastico del brano e le stilettate che i suoi versi lanciavano contro la guerra in Vietnam (tra l’altro proprio alla vigilia di quella che si sarebbe rivelata una nuova fallimentare operazione bellica da parte delle forze armate USA). Ciò nonostante la riesumazione del vecchio successo sembra suscitare gli effetti sperati dai programmatori: solo un paio di mesi dopo, un sondaggio di Rolling Stone eleggeva proprio il Boss come simbolo e nome più rappresentativo dell’America (anche extramusicale). Proprio lui, che pure non rilasciava un disco d’inediti da quel “The Ghost of Tom Joad” di sei anni prima! La metà di americani che – presumibilmente – non si riconosceva nelle politiche conservative di Bush, vedeva nell’autore di “Born to Run”, più che una voce di denuncia, un valido vessillifero alternativo. Springsteen lo prese come un segno, tanto che nel giro di pochi mesi rimise insieme i cocci della E-Street Band e inaugurò la collaborazione con il produttore Brendan O’ Brien per ultimare le incisioni di “The Rising”. Nonostante un impianto di sani principi progressisti e multietnici che lo anima, “The Rising” esce fuori pomposo, retorico e, almeno secondo molti, rappresenta un’occasione mancata di “puntare il dito” e raccontare la (o le) verità sulla politica estera che ora si ritorceva contro l’Occidente. Con le sue incitazioni a “rialzarsi”, Springsteen ha preferito farsi portatore dell’umore della gente piuttosto che fungere da delatore del potere, abbracciare senza riserve la vox populi anzichè direzionarla o anche solo “informarla”.
“The Rising” è il primo anello di una catena che ha finora compreso altri quattro episodi discografici differenti e, ragionando a posteriori, è piuttosto impressionante constatare come di volta in volta l’umore di ognuno di essi sia stato direttamente proporzionale agli alti e ai bassi elettorali del Partito Democratico.
Ricapitolando: avendo preso apertamente posizione a favore del candidato John Kerry con la partecipazione al Vote for Change Tour e constatata l’amara sconfitta alle presidenziali del 2004, “Devils and Dust” (2005) vestirà a lutto e canterà le tristi gesta del soldato americano in guerra in Iraq. I toni si alzano decisamente quando anche il secondo mandato di Bush junior si sarà avviato verso la conclusione, orfano di sempre più consensi: prima con le Seeger Sessions, estemporanea ma felice chiamata alle armi in nome dei Bei vecchi Tempi, in cui l’inno traditional che dà il titolo all’album, “We Shall Overcome” (2006), assume connotazioni partitiche oltre che politico. In seconda battuta, completerà l’opera “Magic” (2007), un road-record di onesto rock’n’roll che ritrova O’Brien alla regia e pare finalmente tornare a mostrare le unghie: i diversi spari indirizzati all’ambulanza dell’ormai moribondo impero repubblicano facevano sperare in un ritorno post-depressivo verso la militanza civile.
A coronamento del percorso battuto, nel gennaio 2009 ritroviamo Springsteen al Lincoln Memorial Center a festeggiare l’elezione di Barack Obama e, così dice, l’alba di una nuova era per il suo paese. Canta in compagnia di un coro gospel e del mentore Pete Seeger, ma la sua presenza su quel palco è dovuta al nuovo presidente più che al vecchio maestro. L’impianto ideologico costruttivista di Obama è tutto quel che si nasconde dietro all’ottimismo dell’ultimo nato “Working on a Dream”: tanto per cominciare, il “working” non ha nulla a che fare con la working class o con la logica del “duro lavoro” di cui erano impregnate liriche e canottiere nei primi anni di carriera. E’ più “working” nel senso di “stiamo lavorando per voi”, rimanda a un costruire o edificare, processi graduali e reali(stici) di segno inverso all’immediatezza che invece evoca la parola “dream”. A questa ricostruzione Springsteen si vuole affacciare con il sorriso dell’edificatore, il pensiero positivo del costruttore che non può permettersi i crucci perché “ha da lavorare”.
La mala partenza di Outlaw Pete tradisce da subito la tendenza da esaltazione generale: è l’ultimo nella galleria dei fuorilegge cari al cantautorato americano ma, al contrario di molti suoi predecessori, Pete non indossa sobri panni acustici bensì sfoggia un’armatura lussuosa di chitarre e tastiere che per ben otto minuti emana effluvi di discoKiss di “I was made for lovin’ you” (!!!).
Echi di rock trionfalistico da Bon Jovi e dintorni si attardano per l’intera tracklist, ma è quando i volumi diminuiscono che si solleva il velo sulla vera natura da easy-listening di “Working on a dream”: è significativo che quasi tutti coloro che vi si sono approcciati finora si siano sentiti in dovere di chiamare in causa nomi come Roy Orbirson o Brian Wilson, solitamente distantissimi dall’universo del boss, ma per questa volta utili a decodificare le scelte sonore del nuovo tandem Springsteen-O’Brien. Brani come “Love Itself” o “What Love Can Do” riportano al Bruce-sordo-d’amore e scialfa-addicted che nel 1987 si infilò nel “Tunnel of Love”, riproponendosi in maniche di camicia e volto sbarbato davanti agli occhi increduli dei fan.
Senza più un Bush tra i piedi, Springsteen ha perso tutti gli interessi a continuare a fare della critica: ma il suo ottimismo per il “sol dell’avvenire” male si accorda con la condizioni degli americani che si ostinano a navigare in acque grame, a prescindere dai cambi della guardia alla Casa Bianca. Anche i rari agganci alla realtà degli everyday people suonano poco credibili in un contesto così fuori dal mondo. Scrive Stephen Deusner per Pitchfork, “Così come ‘57 channels (and nothin on)’ non riuscì a convincere nessuno che Springsteen guardasse molta televisione, così ‘Queen of the supermarket’ non potrà persuadere gli ascoltatori che si faccia la spesa da solo”.
Mano a mano che si è avvicinato alle istanze del partito democratico, Springsteen ha aumentato il divario con le ragioni di quella gente che fino a ieri aveva voluto rappresentare. La musica ne risente, tant’è che uno dei pochi momenti buoni di “Working on a Dream” arriva a disco già finito, sottoforma di traccia fantasma: si tratta di “The Wrestler”, tema per l’omonima pellicola di Danny Aronofsky nonché dedica sincera e commossa all’amico Mickey Rourke che ne è il protagonista. Come il film, la canzone parla di un ex lottatore professionista entrato in crisi profonda e lasciatosi alle spalle il glorioso passato… ricorda qualcuno?