Attitudine e visuals: Prima ancora che sui lampeggianti da gaybar posti ai lati del palco, l’occhio cade sulla figura di Mark Stewart. Rughe, pancetta, camicia aperta sul petto e asciugamano in spalla mettono un po’ di anni luce fra questo attempato e – a suo modo – elegante signore e il 18enne che si contorceva nel video di She’s beyond good and evil. Da par suo, Bruce Smiths sceglie di battere (e come) i tamburi in canotta da muratore. Lo strano impatto visivo di qualche cosa che dovrebbe essere glam ma poi, per qualche ragione, non riesce, o non vuole, esserlo. Una volta tanto la tendina sberluccicante sullo sfondo dello Spazio 211 è in tono con lo spettacolo.
Audio: lo stregone del mixer e del beatmeaking Adrian Sherwood è clamorosamente assente. Gli avvistamenti e le dita puntate verso il primo incolpevole pelato presente in sala sono tutti falsi allarmi. Ciò non di meno i suoni sono ottimi e gli effetti sembrano ripresi paro paro dalle incisioni. Il basso di Don Catsis regge la baracca per tutta la durata del set e, appena può, la butta giù in dub spinto.
Setlist: Le frecce migliori all’arco di Y, la politicizzata Forces of Oppression, qualche interessante novità “yet to be recorded” e We are all prostitutes, che apre il concerto e lo chiude pure, con un bis strafattissimo mandato al rallentatore. Il tutto per poco più di un’ora di durata, ma con un tiro che spaccherebbe il culo a qualsiasi passerotto p-funk dell’ultima generazione.
Momento migliore: “here’s our last song, thank you all for being here…” – grida di protesta in sala – “c’mon guys, we are tired”. Segue il riff di We are Time.
Pubblico: è un evento gentilmente offerto dal Traffic Festival e quindi abbondano gli avventori dell’aggratis: il locale è in sold out già prima delle 22.30. Per il resto molti curiosi e qualche irriducibile appassionato della prima ora, che lamenta la scarsa durata del live (“suonate una volta ogni vent’anni”). Pochi e malcapitati i giovincelli che si sono bevuti la storia de “i papà degli !!!”. Per essere una data ascritta al calendario della rassegna MiTo manca la classica coppietta di anziani comodamente seduta sugli sgabelli con tanto di programma alla mano che era venuta a marcar visita in qualche altra occasione. Modo di sedersi, d’altra parte, qui non ce ne sarebbe proprio stato.
Locura: se vedere novanta chili di cinquantenne che sculettano a tempo di funky non vi pare abbastanza “locura” vuol dire che siete abituati a frociaggini ben peggiori. E questo è male.
Conclusione: finita la sbornia memorialistica con i vecchi compagni di merenda, sarà tempo di tornare al lavoro. L’ennesima band di ’80 e dintorni che cala l’asso della reunion, dunque, magari nel tentativo di acchiappare le briciole lasciate dai suoi ingrati pronipoti? Forse, ma se lo spirito e la qualità del materiale sono quelli ascoltati stasera, preparatevi ad accogliere Stewart e i suoi tra le poche ma buonissime formazioni che hanno potuto godere di una seconda vita. Post- post-punk.
Foto di Stefano Maselli