Matthew Dear – Black City

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17 agosto 2010 Ghostly International www.matthewdear.com

Soil to Seed

Pur dovendo lasciare ad altre sedi e ad altre menti una disamina speculativa sul fenomeno, è indubbio che questo 2010 alcuni degli artisti di elettronica più attesi, se ne sono usciti con album che, chi più e chi meno, prendono con decisione la via del rock, soprattutto in direzione dark wave e David Bowie. Dai Groove Armada a LCD Soundsystem, da Trentmoller agli Unkle, si potrebbe includere anche M.I.A. forzando un po’ il discorso. Con risultati interessanti, molto diversi tra loro, ma di sicuro non troppo coerenti con la fama di innovatori di questi personaggi, che sembrano concentrarsi invece nel loro ruolo “produttivo”. Matthew Dear, per il seguito del prezioso Asa Breed, intraprende un percorso simile, ma con ambizioni decisamente più a fuoco. Black City è un disco estremamente suadente, capace fino in fondo di sfruttare la qualità ammiccante della forma-canzone, facendola rammollire in una pozza nera di funky intiepidito a dovere. In cambio, l’approccio pop, restituisce grande personalità e una straordinaria forza impressiva a dei suoni sornioni che, da par loro, potevano tranquillamente morire come semplici sensazioni. Sembra, soprattutto, molto maturo nel modulare la ricettività verso altri generi. Recupera e rivalorizza le tipiche armonie vocali dei Tv On The Radio, in un contesto più rapreso, costruisce efficaci trame kraftwerkiane che addomesticano gli scivoloni più house che a loro volta tengono a bada le frivolezze pop. Si ascolti Little People (Black City), nei suoi 9 minuti e passa in cui David Bowie appare e scompare da dietro una tenda di velluto blu notte, con una dinamica in perfetto stile DFA che nel finale sembra evocare i Clinic negli inserti minimali di synth e gli sfondi vocali. O anche l’intreccio glitch da cui prende corpo You Put A Spell On Me, un mantra daftpunkiano che rifiuta ogni mondanità per penzolare indolente. Tanto programmatica sembra Slowdance, con il suo incedere morbido e fradicio, così estemporanea, per un album così coeso, è la chiusura con Gem, uno svolazzo ambient su cui Dear appoggia un tessuto di piano e voce esiziale e deliziosamente opaco.
Lussuosa e spugnosa soultronica, densa di riferimenti sapientemente sintetizzati in uno stile dal fascino familiare, riconoscibile quanto basta per lasciarsi sbottonare e allo stesso tempo capace di mettere un punto ad molte idee che sono nell’aria da un pò. Con il suo dance-pop dalle movenze feline, Black City, cattura d’instinto una modernità più docile e spontanea di quanto volessimo credere.