Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: |
14 settembre 2010 | Mute Records | www.grinderman.com |
Palaces of Montezuma
00:41 “I woke up this morning and I thought what am I doing here?/ what am I doing here?”. Poi si risciacqua la faccia, e quando rialza gli occhi verso lo specchio i peli sembrano cresciuti ancora. Molto più di quanto non sia normale per una barba da due giorni. 1:43, i vicini sentono il primo ululato. Un lupo, entrato da chissà dove, si aggira per le sale del suo appartamento. Di lui, invece, non si hanno più tracce.
Fuor di metafora, ciò che sta dietro al protagonista di Mickey mouse and the Goodbye man, e forse al progetto Grinderman tutto, è la fatidica crisi di mezz’età. L’uomo di cinquant’anni fatti, con casa, famiglia e carriera ben avviata si sveglia un mattino e si chiede il proverbiale “che diavolo ci faccio qui?”, con relativo flashback alla lontana giovinezza da incendiario. Ecco, fatte le dovute proporzioni tra la sua “routine” e quella di un impiegato statale, a Nick Cave dev’essere capitata più o meno la stessa cosa. Della “vita da ufficio” cui fece pubblicamente cenno qualche anno addietro si sono stufati per primi gli ascoltatori e infine lui stesso, per cui benvenga il richiamo della foresta. E se poi i compagni di scorribanda sono gli stessi con cui lavora gomito a gomito da anni, poco gliene cala. Warren, Jim e Martin sono tipi a posto, che sanno come divertirsi: ad esempio stanno al gioco quando c’è da invadere la rete con trailer horror-demenziali degni del peggior (miglior?) Rob Zombie. O da vestirsi come centurioni per il clip di Heathen Child, un altro numero di alta classe.
Se il primo Grinderman era un dischetto bello zozzo ma tutto sommato contenuto, al secondo atto si rompono definitivamente le righe. Le chitarre due volte più acide, gli arrangiamenti sbilenchi, un Cave ancora più sboccato e orrorifico. I quattro si godono le loro scappatelle come si deve e per la gran parte del tempo quelli all’ascolto che sceglieranno di accontentarsi non potranno che godere a propria volta. Appena un paio i momenti di quiete e spaesamento: e non è tanto il caso di When my baby comes – che parte in sordina e poi deflagra in una fiorire di distorsioni – quanto quello di Palaces of Montezuma, un gioiellino di gospel-pop tanto fuori luogo su questi solchi da far pensare a una composizione destinata al canzoniere Bad Seeds e poi finita quaggiù per sbaglio. Del resto, si sa, quando si arriva ad una certa età qualche svarione è inevitabile …