Luca Castelli è l’autore del fortunato libro “La Musica Liberata” (Arcana) dove lo scrittore parla dell’avvento dell’mp3 e del filesharing e di come il modo di approcciare la musica sia radicalmente cambiato… Lo scrittore affronta, quindi, questi 10cd in maniera “moderna”.
È necessaria una premessa. Un po’ mi duole ammetterlo, ma è da parecchio tempo che un cd non gira più nel mio lettore. Sono ormai uno schiavo degli MP3, degli iPod, della musica ascoltata in streaming su Spotify. Senza via di ritorno. E questa schiavitù ha anche modificato radicalmente le mie scelte d’ascolto: gli album interi trovano sempre meno spazio, sostituiti da singole canzoni, da EP, da bootleg, da vorticose e caleidoscopiche playlist spinte verso l’estremo shuffle. Forse sarebbe più onesto fare una lista delle mie ultime dieci playlist preferite, invece che dei dieci album. Ma Rocklab mi ha chiesto gli album. E allora eccoli qua. In fondo questa vetrina se la meritano, visto che sono riusciti a strapparmi almeno uno, tre, cinque o dieci ascolti integrali. Nel 1995 sarebbe stata una formalità. Nel 2010 è un privilegio che concedo magnanimamente solo ai migliori.
1- ARCADE FIRE – THE SUBURBS.
Al primo ascolto ho sbadigliato. Al secondo, anche. Al terzo, pure. E mi sono chiesto dove fossero finiti gli epici Arcade Fire di Funeral. Ma visto che avrei dovuto vederli a Parigi, dal vivo, ho voluto perseverare. E ho fatto bene. The Suburbs cresce lentamente, trasformando magicamente gli yawn in piccole gocce di piacere. E’ forse il disco più importante della band canadese. Di certo il più maturo. Non lo amerò mai come Funeral, ma le sue canzoni conserveranno sempre un ruolo speciale. Soprattutto quelle – la title-track, Ready To Start, We Used To Wait e Modern Man – suonate e scolpite nella memoria a fine agosto al Rock en Seine. Forse oggi il pregio di una band non è solo registrare grandi album, ma anche riuscire a obbligarti (a volte inconsciamente) ad ascoltarli più volte. Chissà quante sorprese si nascondono oltre alle colonne d’Ercole degli sbadigli prematuri.
2. PERTURBAZIONE – DEL NOSTRO TEMPO RUBATO.
Quest’album ha barato: è partito favorito, beneficiando di una posizione privilegiata. Nei racconti di Gigi (il chitarrista della band torinese), l’ho visto crescere lentamente. Da lontano, con il binocolo, ho seguito molte delle fasi del trasloco. Un po’ come un reality, ma senza Nefruz. Alla fine, prima ancora di ascoltarlo mi sembrava di conoscerlo. E dopo averlo conosciuto, mi è venuta sempre più voglia di ascoltarlo. Adoro il 33,3% delle canzoni. Mi piace da morire un altro 33,3%. Devo ancora assimilare il restante 33,3%. I testi sono grandiosi e la confusione delle sfumature riflette la confusione dei nostri giorni. Dentro c’è un mondo che riconosco. E c’è Cimiterotica, che mi fa venir voglia di appartarmi con una ragazza nel parcheggio dietro a un cimitero (non quello di Rivoli, però, perché non vorrei trovarmi fuori dal finestrino un Perturbazione che prende appunti per una prossima canzone). Ecco, il bello è che dentro a ogni scatola di quest’album si nasconde una storia: tu la apri, la vedi, la leggi. Credo sia un’altra dote necessaria a un album oggi: essere una storia. Non per forza un bestseller alla Dan Brown. Non un passepartout di plastica buono per tutte le serrature. Ma una storia che coinvolga te, che ti dica qualcosa, che ti dia qualcosa. Per dirla proprio con i Perturbazione, una storia che ti entri in circolo.
3. A TOYS ORCHESTRA – MIDNIGHT TALKS
È più facile che un cammello obeso passi per la cruna di un ago magrolino che io mi appassioni davvero al concerto di una band che non conosco. Magari mi diverto. Magari l’antennina della curiosità riceve qualche stimolo. Magari mi vien voglia di approfondire. Ma raramente, se non conosco a priori la musica, mi appassiono. Gli A Toys Orchestra sono quell’eccezione che dà un senso all’avverbio “raramente”. In primavera, il loro concerto torinese è stato un ordigno che mi è esploso da qualche parte tra lo stomaco e la milza. Facendo danni irreparabili, anche se lo sappiamo bene che la milza non serve a niente (infatti si rubano i reni, mica le milze). Non li conoscevo e ho fatto immediatamente ammenda, comprando vinili e pompando MP3 nell’iPod. Celentano è una meraviglia lenta, Mystical Mistake una meraviglia potente, Midnight Talks una meraviglia a volte lenta a volte potente che meriterebbe di proiettare la band fuori dai nostri asfittici confini. Sul palco, poi, gli A Toys Orchestra sono anche bellissimi e travolgenti, trasmettono ettolitri di energia (e il Bruno Vespa che è in me è contento di averli visti nell’estemporanea formazione con la brava Beatrice Antolini). Un sogno a occhi aperti del 16 settembre 2010? La band campana in apertura a un concerto degli Arcade Fire al Forum di Assago.
4. BIG BOI – SIR LUCIOUS LEFT FOOT… THE SON OF CHICO DUSTY
Il cammello obeso penetra con estrema disinvoltura la cruna dell’ago anche in confronto al mio rapporto con i dischi di black music/hiphop/r’n’r/soul/ecc ecc… Sono generi musicali che mi sono talmente indifferenti da metterli sacrilegamente insieme in un’unica marmellata. Eppure forse qualcosa sta cambiando. Perché, da un paio di settimane a questa parte, sto provando un divertimento immenso nell’ascoltare The Son of Chico Dusty, l’esordio solista (credo) di una metà degli Outkast. Merito dello stratosferico voto su Metacritic, che ha stuzzicato la mia curiosità. E del solito Spotify, che si è prodigato per soddisfarla in pochi nanosecondi. E’ ricco, è colorato, è allegro, è pieno zeppo di idee, arrangiamenti e robe strane (compreso un coro d’opera). Potrebbe essere solo una effimera ubriacatura di fine estate. Il razzismo dei gusti musicali è duro a morire. Vedremo tra qualche mese.
5. JOHN GRANT – QUEEN OF DENMARK
6. JONSI – GO
7. GORILLAZ – PLASTIC BEACH
Pur sapendo di non essere molto elegante, questi tre li metto assieme. Sono dischi che ho ascoltato parecchio negli ultimi mesi, un po’ meno nelle ultime settimane, abbastanza poco negli ultimi giorni. Il migliore è quello di John Grant, che quasi di sicuro rientrerà nella inevitabile top 10 di fine anno. Le prime cinque canzoni seguono alla lettera il manuale dello struggimento indie-folk americano e le melodie sono talmente sublimi da giustificare qualsiasi eccesso malinconico. Inoltre, lui su Facebook è pure simpatico. Jonsi è Jonsi. Massimo rispetto per il passato con i Sigur Ros e sincero plauso per il presente di un album più che dignitoso. Peccato solo per il concerto acustico a Parigi. Sarà anche stata colpa dell’Air France che non gli ha fatto arrivare in tempo l’armamentario elettrico dal Portogallo, ma il risultato è stato assai noioso. A volte basta poco a far pendere la bilancia da un lato o dall’altro. Il concerto degli Arcade Fire ha aumentato a dismisura i miei ascolti di The Suburbs, quello di Jonsi ha fatto drammaticamente crollare quelli diGo. I Gorillaz, invece, sono sempre sospinti dall’effetto Damon Albarn, un doping antropomorfo che migliora artificialmente la qualità di qualsiasi album in cui metta becco. Però su Plastic Beach sta infierendo ormai la mannaia della selezione. So già che nel giro di poco tempo finirò per ascoltare solo più Melancholy Hill.
8. PEARL JAM – BACKSPACER
9. MARLENE KUNTZ – IL VILE
10. GUNS N’ROSES – USE YOUR ILLUSION I & II
A volte, ciò che l’iPod prende l’iPod restituisce. Soprattutto quando ti spara a caso una canzone che ti fa venir voglia di riascoltare un intero album. Di recente, a me è capitato almeno tre volte. A farmi riprendere in mano Backspacer ci ha pensato lo spinning della Unthought Known nella versione suonata a luglio all’Heineken di Venezia. Ma non è che abbia dovuto sforzarsi troppo, visto che quello dei Pearl Jam è il mio album preferito del 2009. Già più sorprendente è stato il potere di L’esangue Deborah dei Marlene Kuntz. Stretto tra la morsa di Catartica e Ho ucciso paranoia, non mi ricordavo quanto fosse bello e spigoloso Il vile. Il vero miracolo però lo ha fatto Civil War. Perché mi ha fatto venir voglia di riaffrontare l’intero malloppone doppio dei Guns n’Roses, un must del mio periodo liceale. E, giuro, ho seguito l’impulso: trenta canzoni, una dopo l’altra, comprese l’orripilanteMy World (che almeno dura solo un minuto) e l’eterna Coma (che di minuti ne occupa più di dieci, ma sembrano quaranta). Alla fine ero contento. Ma sentivo un urgente bisogno di premere un bottoncino con la scritta shuffle. Sono proprio cambiati i tempi.
Altre info su Luca Castelli: http://it-it.facebook.com/lucacastelli – http://cabaldixit.blogspot.com/