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Ottobre 2010 | Elefant Records | myspace.com/tremblingbluestars |
Cold Colours
Robert Wratten è sempre stato una mosca bianca nell’ambito dell’indie rock inglese: contemporaneo di Morissey e dei suoi Smiths ma lontanissimo dal narcisismo e l’autoindulgenza che li caratterizzavano, è riuscito con una manciata di canzoni scritte per la sua band primigenia, i Field Mice, a ritagliarsi una nicchia di un certo rilievo nel roster della storica etichetta twee pop Sarah Records. Una attitudine esistenziale dimessa e schiva – il filo conduttore della sua vita, prima ancora che della sua musica – gli ha sempre precluso le luci della ribalta, portandolo a scansare accuratamente ogni possibilità di esibizione dal vivo o comunque ogni contatto diretto con il pubblico e i giornalisti del settore; così, dopo aver dismesso l’esperienza con i Field Mice e con essa la storia con l’incantevole amica\cantante\girlfriend Annemari Davis, il buon Bobby è rimasto arenato in un nebuloso limbo post-adolescenziale, un mondo di sospiri e rievocazioni nostalgiche indissolubilmente legato ai languori di una giovinezza irripetibile.
I Trembling Blue Stars, nati dalla scia burrascosa di quegli avvenimenti, sono una creatura ambigua: se da un lato hanno permesso al loro fondatore di superare l’impasse attraverso una sublimazione creativa del rimpianto, dall’altro lo hanno invischiato inestricabilmente in una ragnatela di struggimenti sentimentali e malinconia compiaciuta. Non è infrequente, sopratutto sui primi dischi, che la musa Annemari si ritrovi a cantare testi scritti da Bobby espressamente per, e su, di lei (o meglio, su loro due e i momenti trascorsi insieme), quasi a voler esorcizzare lo spettro della rottura reiterando, e così rivivendo, il trauma più e più volte, finchè tutto il dolore che ne scaturisce si stempera e assume i contorni di una alchimia emotiva dolciastra e carezzevole.
Tutto ciò si traduce musicalmente in una galleria di impeccabili pop song che non si discostano di una virgola dalla forma canzone tipica di questo genere; anzi, a dirla tutta, non sarebbe una forzatura sostenere che Wratten ha scritto e riscritto per anni, compulsivamente, la stessa canzone, alla spasmodica ricerca della perfetta cornice sonora alle sue inguaribili ossessioni.
Fast Trains and Telegraph Wires è l’ultimo (in senso non solo cronologico, purtroppo) album dei Trembling Blue Stars, ed ha tutto il sapore dell’epitaffio di un’epoca: 18 tracce disseminate su due dischi, un compendio di tutte le influenze e collaborazioni che hanno costellato il percorso artistico dell’inquieto cantautore inglese. Le coordinate sonore sono sempre le stesse, così come gli arrangiamenti spartani (drum machine e synth che echeggiano i New Order, qualche screziatura elettronica qua e là, controcanti celestiali, voci e chitarre riverberate), ma il lavoro di cesello su ogni singolo pezzo raggiunge, forse, il suo apice. Dappertutto serpeggia lo spirito dell’indie pop anni ’80 (i Go-Beetweens di “My Face For The World to See” e “All Your Tomorrows”, ma anche, immancabilmente, gli stessi Field Mice), massiccia come al solito l’influenza dei Cure più sentimentali (“Cold Colours”, uno degli episodi migliori), mentre il lato sperimentale del gruppo, quello che Wratten aveva sfoggiato nel suo side project “The Occasional Keepers”, emerge nelle escursioni ambient del secondo disco ( gli scampanellii cosmici di “Outside”, le esalazioni miasmatiche di “Radioactive Decay”). In tutta questa abbondanza c’è spazio perfino per la cover di “Not for Second Prize” dei Dream Academy, deliziosa ninna nanna per chitarra acustica e xilofono, e per una “No More Sad Songs” che lascia ben sperare in successive incarnazioni musicali, animate – magari – da una rinnovata fiducia nell’avvenire.
Insomma, anche se forse non diventeranno mai l’amore della vostra vita, i Trembling Blue Stars continuano a scrivere, in sordina, pagine memorabili dell’indie pop, e quest’ultimo disco è solo l’ennesima immolazione viscerale di un grande artista in punta di piedi.