L’etichetta, per ogni band emergente, è un punto di partenza e di arrivo allo stesso momento. Alcuni non la troveranno mai pur cercandola disperatamente; altri si faranno fregare soldi o peggio i diritti sui brani da gente che, detto in maniera brutale, non vede l’ora di trovare i gonzi di turno; altri ancora se la inventeranno di sana pianta auto-gestendosela, come fecero i Ministri con la OTO Records, nient’altro che un sito web con loro tre dietro.
Personalmente credo che la situazione migliore sia quella dei Verdena, che hanno messo a capo della Jestrai la propria madre, e poi grazie al cavolo che possono permettersi di aspettare tre anni per far uscire un doppio album.
Ultimamente, vista la densità di etichette di ogni genere e forma, la tendenza non è più quella di fondare un’etichetta, ma piuttosto di metter su agenzie concerti, uffici stampa e di promozione: dopotutto è la naturale evoluzione di quelle pseudo-etichette che, non potendo affrontare le non indifferenti spese annuali di SIAE per poter diventare editori, si limitavano a promuovere gli artisti tralasciando gli aspetti del diritto d’autore, che oltretutto richiedono una certa preparazione e la gestione di un bel po’ di burocrazia e scartoffie, roba noiosa insomma, certamente molto poco rock’n’roll.
Di sicuro più allettanti, meno invadenti di un vero produttore artistico che vuole farti cambiare il suono della chitarra su quel tale brano, e con l’aspetto dell’agenzia di servizi pronta ad esaudire i sogni di gloria di qualsivoglia artista, le press-agency stanno facendo la parte del leone in questo momento storico della musica indipendente italiana. A volte non c’è nemmeno bisogno di mettere su un sito web, basta auto-eleggersi artist developer e iniziare a spammare.
Purtroppo così facendo, spostando troppo l’attenzione sulla questione promozionale che sulla produzione vera e propria, in un certo senso la qualità della produzione di un album va a perderci: la tendenza è di andare al risparmio nelle registrazioni per poi impegnarsi anche troppo nel promuovere qualcosa di poco curato, ed è lo stesso motivo per cui – sebbene riceva tantissimi album – pochi possono vantare una produzione come cristo comanda.
The Perfect Guardaroba, marchigiani, propongono un “esplosivo mix di punk e rock’n’roll” che deve aver preso umidità con la brutta stagione: in realtà di graffiante non c’è nulla. In Sometimes They Come Back la produzione ha provveduto a limare tutti i suoni, rendendo il prodotto radiofonico al massimo, e sconfinando quasi in una attitudine adolescenziale che poco si adatta all’età anagrafica della band. Più Avril Lavigne che Mando Diao insomma. Grossi, grossissimi problemi sui cori, la title track da ascoltare è abbastanza fastidiosa e non va meglio con Try Again. La cover di Rehab di Amy Winehouse non risolleva le sorti dell’album: diciamo che l’intento è quello di piazzare la cover di un brano famosissimo e rileggerlo in maniera ironica, ma l’effetto che ne viene fuori è una certa malcelata paraculaggine nel riproporre qualcosa che tutti conoscono per non impegnargli troppo il cervello. Ok probabilmente me la sono fatta pigliare troppo male e non voglio andare oltre, ma raramente mi è capitato di ascoltare un album ufficiale con una così pessima performance vocale abbinata ad un songwriting senza spunti.
Gionata, dalla Svizzera, invece non è proprio un novellino: ha iniziato la carriera negli anni ’90 e questo In nove mosse mi pare di aver capito che è l’ennesima prova di questo ragazzo. Un prodotto di totale pop italiano declinato in vari aspetti: così come Happy Boy mi sembra un brano di L’Aura e Le cose facili va su territori battuti da Le Vibrazioni, è in Tu Vali che Gionata sembra rifarsi a quell’electro-pop che ha fatto la fortuna dei Bluvertigo negli anni ’90. I cambi di stile fra una canzone e l’altra sono quasi schizofrenici, ma sono stati tutti gestiti con maestria, per cui se da una parte si potrebbe accusarlo di una mancanza di coerenza stilistica, bisogna pur dire che tutti gli episodi dell’album sono credibili e ben gestiti, insomma eclettico ma con gusto. Anche i testi sono efficaci e non banali, Lola è un buon esempio di come trattare il tema amoroso, ed in questo brano è come se ci sentissi un po’ di Max Gazzè. A Gionata non manca niente rispetto agli altri artisti qui citati, per cui il vero indovinello è perché non ha avuto il giusto spazio? Misteri della discografia italiana.
I LeoMinor, di Verbania, infine, sono una band come se ne trovano poche in Italia: un Ep strumentale di 4 brani per oltre 30 minuti di puro post-rock è decisamente un buon biglietto da visita per un gruppo coraggioso come questo. December è in effetti tetro come un paesaggio brullo invernale, di quelli che non ti fanno pensare possa mai tornare la primavera, ed i momenti migliori sono sicuramente quelli che creano un’ambientazione statica e ridondante, quasi una sensazione da “senza via d’uscita”. Purtroppo i cambi sulle parti più propriamente metal come in Gnyis-gsum sembrano tagliati con l’accetta e incollati con una produzione un po’ grossolana, così come il fatto di aver pannato sempre leggermente sulla destra i suoni più duri di chitarra fa perdere spazialità agli effetti, che avrebbero potuto allargarsi e stringersi nei canali a seconda dei brani. Gcig è decisamente il brano migliore, che gode della migliore atmosfera, ma anche Inga mi ha affascinato e mi ha condotto ad una degna conclusione.