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10 maggio 2011 | Souterrain Trasmission | EMA |
California
Niente è meglio di un’autodescrizione per capire una persona; nella fattispecie quella di EMA (Erika M. Anderson), presente sul suo sito, recita più o meno:
Erika M. Anderson è cresciuta nei bar fuorimoda e nei giardinetti malfamati del South Dakota. È una diretta discendente di Erik “Ascia di sangue”, lo spietato guerriero vichingo. Tutti i ragazzi le chiedono sempre perché è così dura. È alta 1 metro e 80. adora i jukebox.
Descrizione un po’ sibillina, certo, ma che permette di capire che siamo di fronte a una “child of the 90s”, inteso come una incazzata fuori ma tenera dentro, un diamante grezzo che potrebbe ammaliare, se solo gli si levasse la scorza dura che lo avvolge. Il suo stile musicale in realtà è quasi l’inverso di questa descrizione: incazzata dentro e tenera fuori. Un talento e una sensibilità artistica già ampiamente udibili, anche se non ancora sbrilluccicanti.
Colpa del carattere di Erika, che preferisce affogare il suo lato più femminile tra feedback e distorsioni, creare atmosfere cupe giocando con droni e percussioni “eco-izzate”. Nonostante ciò la sua voce da contralto, chiaramente ispirata dalle donne alternative degli anni 90, riesce comunque a fare capolino, come un fiore che sboccia da sotto la neve, incarnando con una perfezione da cantautrice consumata il mood di ogni pezzo, sviscerando di volta in volta le emozioni più recondite di questa ragazzina della provincia americana, dura sì, ma solo in superficie. Riesce ad essere arrabbiata senza arrivare ad estremismi hardcore, cantandone quattro alla California, la terra che la ospita dopo la sua fuga dal midwest; a sussurrare i malinconici versi di Breakfast, con la voce appesa a un filo, che si trasforma poi in un lamento appena accennato. Oppure a diventare un rantolo graffiante in Marked.
Con altrettanta maestria la giovane Erika riesce ad attingere a tutto il repertorio dei 90s, dallo slowcore al noise, dosando gli ingredienti creando composizioni abbastanza fresche, sperimentando molto nelle parti strumentali: ad esempio privandole della batteria (in Butterfly Knife e Coda, un intermezzo a cappella con armonia a due voci), aggiungendo textures di tastiere come in California o intermezzi pianistici in Anteroom, oppure orchestrando dei climax crescenti come in Red star e The grey ship, la quale culmina in una virulenta schitarrata che ricorda certi pezzi dei Mogwai. Il tutto mantenendo praticamente per tutto il disco una ritmica downtempo.
Ulteriore elemento di valutazione finale: i pezzi del disco sono stati scritti alcuni anni fa, quando Erika non era neanche maggiorenne. Un esordio col botto in sostanza, nonostante, a mio parere, sia sempre più difficile far qualcosa di veramente innovativo e fresco con il sound a cui si è ispirata EMA.
C’è da sperare che l’hype, mostro famelico sempre in agguato, specie quando si tratta di giovinette bionde, non esiga il suo tributo e rovini questo fiore appena sbocciato, che con il giusto tempo e le adeguate cure può sbocciare in tutto il suo fulgore e lasciare un segno visibile nell’attuale scena alternative.