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Giugno 2011 | myspace.com/dotdashrecordings | Wiki |
White Wall
Tempo fa scrissi su queste pagine qualcosa sui Tame Impala, ma scelsi come incipit un’ode alla scena musicale di Perth, Australia. Ora posso confessare che mentre scrivevo avevo in mente questi Snowman, che non molto tempo prima mi avevano schiaffeggiato a dovere con il loro secondo lavoro The Horse, The Rat And The Swan e la loro ferocia conturbante, personale rivisitazione dei This Heat in chiave meno astratta di quanto facciano i Liars, l’incontro tra la Dischord di Washinghton DC anni ’90 e la Industrial Records di Sheffield anni ’80.
Finii col procurarmi anche il primo album omonimo del 2006. Ora arriviamo alla chiusura del triangolo, simbolo perfetto di una storia che, al terzo tassello, si esaurisce qua. Indagando sui motivi dello scioglimento della band, che ha finito di approntare l’album a distanza, scopro che gli australiani Snowman erano un inglese, un’indonesiano, una islandese e un’australiano di origini italiane. Si sono trasferiti quasi subito a Londra, ma gli ultimi due hanno deciso poi di preseguire il viaggio e vivono ora in Islanda, lavorando in un mattatoio. Absence è un album che parla di tutto questo. E’ la perfetta conclusione triangolare di una storia multipolare che è andata sfaldandosi man mano che si dilatava, destinata a scomparire nel nulla. Absence è la dilatazione karmica di quella ferocia e la sua sublimazione in un fluttuare di detriti, come un’ellissi dopo il colpo sferrato, senza traccia dell’impatto, ecco lo spettacolo del compimento fatto e finito. Disco che, nel suo essere oltre se stesso, non riesce ad intercettare nulla del contemporaneo, dalla chillwave alla witch house, ma le lambisce entrambe immergendole nel loro brodo primordiale dei lavori di Claudio Simonetti per i film di Dario Argento, sottolineati soprattutto dall’uso delle voci e da melodie ricercatissime, soprattutto rispetto all’irruenza dei primi due album che qui rimane sotto forma ieratica. La linea conduttrice di ritmiche tribali, ripetitive, ossessive, ma capaci di far respirare i suoni, non sembrano raccontare giunture ma frantumazioni, colpi, spinte di allontanamento che creano crepe. Elettronica schiumosa, voci diafane e chitarre malsane escono da queste crepe come miasmi, tanto da sembrare a tratti dei Sigur Ros bruciacchiati.
Chiudo con un’eresia che non so spiegare fino in fondo. L’uso frequente del clapping o di soluzioni percussive asciutte, certe stratificazioni sonore, il cantato molto filtrato e lavorato, forse sono questi gli elementi che mi fanno venire in mente i Radiohead. Bene: se i Radiohead, dato il concept grafico e l’atmosfera plumbea di The King Of Limbs ed il definirsi del loro ruolo storico, avessero fatto uscire un disco del genere, non so bene chi mi avrebbe trattenuto dal dichiararli la più grande band di tutti i tempi. Ecco l’ho sparata. E invece sono solo gli Snowman. Anzi, erano.