Black Country Communion – 2

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14 giugno 2011 Mascot Records Bccommunion.com

Man In The Middle

Vecchie volpi dal pelo rinfoltito a dismisura queste quattro agiate conoscenze del mondo rock/blues, eccezionali compagni di viaggio d’innumerevoli leggende sonore che si sono man mano succedute tra il mito mediocre e la routine del tornare a “rivivere il fasto”; per la serie tò chi si risente.

Dopo un anno da “Black Country”, l’old Purple Glen Hughes, il funambolo della musica del diavolo Joe Bonamassa, Jason Bonham (figlio di John) e Derek Sherinian ex Dream Theater non hanno resistito a stare con le mani in mano e con i jack ad oziare penzoloni, così afferrano la vertigine e danno alle stampe “Black Country Communion” il seguito imperterrito di quell’esplosione  che, senza discostarsi di un cm dal predecessore, ancora si zavorra sui fasti e i monili di guerra del dirigibile Led Zeppelin, e ciò non che non ci faccia godere, ma non si abbiano a male i “Magnifici Quattro” se poi vengano additati come juke-boxe revivalistico dei ben più “Immaginifici Quattro” che la storia rock abbia partorito.

Messo il puntino sulla i, il disco si affaccia sul presente come una buona/viziosa allegoria sintomatica dell’ hard rock del grande impero settantiano: le grandi pennate, gli amplificatori  surriscaldati al massimo, l’olimpo Zoso che scoppia in ogni interstizio della tracklist, la grazia, la caduta e la nuova spinta degli dei e il rinascimento di una raffigurazione che non si fa mancare nulla, specie nelle intensità vigorose e altimetriche delle ballad, sull’anima di Robert Plant.

Disco vetrina su ricordi immarcescenti? Musica per “organi caldi” riscaldati? Operazione arrampicata d’integralismo fanatico da e per una Starway to Heaven infinita? Probabile, ma dischi così, sebbene suonati da dio, sono più uno sfogo di stile che una sorpresa. Per certi versi può trascendere dal fancazzismo adulto di musicisti che pur di suonare e rimanere visibili si danno ad una specie di coveraggio totalitario e griffato; il risultato è buono ma l’aria è viziata, impregnata di quei codici sacrificali che gli Zep hanno scolpito tra le pareti hard rock per i posteri dei posteri.

E allora tanto vale lasciarsi inghiottire dalla suggestione della “magnifica influenza” e godere di quel poco ma buono che  i BCC inoltrano tra una mossa iconoclasta e una sregolatezza divistica. Arriva il soul impennato “Little Secret”, il riffone “Man in the Middle” direttamente accaldato da “The House of the Holy”, il tamburellamento folk-celtico “The Battle of Hadrian Wall”, il buco nero della ballata groomy “An Ordinary Son”. Solo con “Faithless”, traccia giostrata a duello da Bonamassa, si torna a percepire aria libera da sommatorie, ma è solo un tentativo accennato che non fa nessun sole all’ombra del grande dirigibile in bianco e nero.

Non che ci si aspettasse qualcosa di grosso quando si scomodano arcangeli di tale fatta. Rimane a girare un disco boomerang che può riscuotere una flebilissima accoglienza solamente da un mercato d’improvvisati cercatori di reliquie parallele a quelle dei martellanti figli di Odino… Thor permettendo!