Bon Iver – Bon Iver


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Calgary

L’ACCUSA

P.M.  Enrico Calligari

Ho accettato di fare questa impopolare accusa perchè qualcuno deve parlare, qualcuno deve dire come stanno le cose. E non sarà facile, perché siamo sull’onda di un’emozione. Justin Vernon, in arte Bon Iver, ha sfornato un disco nel 2007, For Emma, Forever Ago, di cui io stesso sono stato e sono tuttora vittima e che in quattro anni si è nutrito di un fittissimo passaparola nonché di un crescendo di riconoscimenti (lui era nella colonna sonora di Eclipse e nel disco di Kanye West, ma una sua canzone è stata omaggiata nell’album di cover di Sir Peter Gabriel), e chissà quante di quelle tracce saranno finite su compilation marpione con uccelli o paesaggi pixelosi in copertina. Tutto questo, dico, senza voler banalizzare il fatto che For Emma è arrivato dritto al cuore e che il ragazzo ormai conosce la strada. Non mancano infatti in questo secondo disco brani da brividi, e che Dio lo benedica. Ma l’esaltazione collettiva autoalimentata sta raggiungendo livelli di cecità inaccettabili. Dopo un culto lasciato lievitare per quattro anni con fortuna e sapienza (perché centellinare di side project ed ep il mercato indie, intanto che il nome Bon Iver prendeva silenziosamente il largo, è una mossa di marketing geniale, volontaria o meno che sia), era chiaro a tutti che quest’album DOVEVA essere un capolavoro, una consacrazione. Ed ecco da tutte le riviste e tutte le webzine, dalle più severe e snob a quelle più glamour, una pioggia di critiche unanimemente esaltate e voti da capogiro culminati con il 9.5 di Pitchfork.

Entusiasmi che nascondono una pesante rimozione. Veniamo agli indizi di colpevolezza. L’album più atteso dell’anno è prodotto in maniera a dir poco dozzinale, manca di amalgama, ha dei suoni lividi e umidicci, non disdegna trucchetti melò e si qualifica lo-fi come il primo senza essenzialmente esserlo a livello di concept. Provate a sentirlo su di un bell’impianto nuovo e rischiate di andare subito in cerca della garanzia. No, non è l’impianto che non va. “Bon Iver” infatti è un disco concepito in maniera molto diversa da For Emma, che era un capolavoro di essenzialità disarmante, necessaria e non ricercata. La conservazione di una patina sembra sia stata una priorità a scapito della miglior resa dei brani. Brani validi, che però, a contarli, le dita di una mano avanzano. Su dieci tracce una, “Lisbon”;OH” è un giochetto di un minuto di suonini e almeno altre due sono inascoltabili ed indifendibili schifezze. “Hinnom, TX” è una pozzanghera di riverberi e di falsetti sintetici e posticci con un puerile doppio registro vocale: che per un attimo abbia pensato di essere un Kanye West in maniche di flanella troppo lunghe? Già da solo un brano così esilierebbe la parola “capolavoro” da qualsiasi recensione. Ma c’è di peggio: c’è “Beth/Rest”. Buttata lì, in chiusura dell’album, “unskippable” probabilmente è il brano più brutto della storia della musica moderna. Pianola del peggior Stevie Wonder anni ’80, beat imbarazzante, un sax mellifluo e stanco e l’entrata di una chitarra al solito riverberosissima, che fa il verso, credo, a Brian Adams, e in chiusura vocalizzi filtrati a “rantolo d’anatra” da far accapponare la pelle. Una roba che Elton John si sta rivoltando nella tomba.

La cosa particolare su cui tengo che la Giuria e la Corte pongano attenzione non è la pochezza dei brani in sé, ma il fatto ben più grave che queste brutture siano state deliberatamente – ripeto: deliberatamente – omesse da tutte le recensioni quando a qualsiasi ascoltatore sarebbero saltate all’orecchio in maniera piuttosto penalizzante per l’album.

Se l’accusa ha qualcosa di concreto da dire che non sia “ma Elton John non è morto”, dimetterò la mia fiducia nell’ascolto come strumento primario di giudizio critico in musica. La mia accusa fondamentale è infatti, Signori, che il clamore su quest’album sia, per ora, solo una coda, un riflesso, dell’intensità delle emozioni per la bellezza del disco precedente che ancora non era, forse, conclamata.

Chiedo infine che sia archiviata come prova definitiva della virata di Justin Vernon per il cattivo gusto, l’orrendo video che accompagna il primo singolo “Calgary”.

LA DIFESA

Avv. Simone Dotto

Mettiamola così: Emma sta a questo Bon Iver come il country blues delle origini stava al suo fratello ‘urban’. Per noi, oggi, due parti altrettanto affascinanti di un unico discorso, l’una la fisiologica continuazione dell’altra: eppure ai tempi non mancarono gli strali di chi gridava al tradimento, lamentandosi per una purezza che, con l’amplificatore, andava irrimediabilmente perduta.

Succede che alla fine anche Justin Vernon è uscito dal capanno ed è andato in città: non esattamente una metropoli,  diciamo. Solo il suo tranquillo paesello natale, tale Eau Claire nel Wisconsin (ammesso che i nomi propri, di persona o di luogo, significhino qualche cosa in questo contesto). Ma quello che conta è che fuori dalla finestra della sua copertina non c’è più soltanto l’acqua ferma di un laghetto, ma una vista dall’alto, con casette, boschi e tutto il resto. Di pari passo, anche il suo sound si apre ai suoni ‘urbani’, che poi significa qualche timida chitarra elettrica, un organico più ‘da band’ (anche se suonato totalmente in solitaria) e le distorsioni del vocoder, già sperimentate prima in Blood Bank.

Senza voler negare nessuno dei difetti messi sul tavolo dall’accusa: c’è qualcosa che va oltre tutte le piccole imperfezioni, e che la critica internazionale sembra aver compreso meglio dell’avvocato della parte avversa. Rispetto all’album precedente resta quell’equilibrio fragile che, avresti giurato, si sarebbe spento una volta che qualcuno avesse deciso di alzare il volume anche solo di tanto così. E invece  sopravvive: lo stesso, identico sussurro che cantava il blues d’amore a Emma lo ritrovi anche qua. In termini strettamente musicali, forse, è solo il canto di Bon Iver, quel suo falsetto tutto particolare. Ma a vederla in senso lato è il ‘gospel’, la sua preghiera personale che continua e supera anche le soluzioni poco felici o i meri inciampi di forma. Un merito non comune, se ci si pensa, che l’incriminata  Beth/Rest non fa che confermare. Se la magia di Bon Iver riesce a sopravvivere anche ai synth e al plasticume simil-anni 80 vuol dire che il nostro è pronto a trarre ispirazione da ogni ambiente. Prossima tappa, un dolente blues direttamente dai nightclub di Las Vegas…