Religious Knives – Smokescreen

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Aprile 2011 SacredBones religiousknives.com

The Message

Quartetto formato da Maya Miller (organo e voce)  e Michael Bernstein (chitarra, voce, synth) dei Double Leopards (in cui si dilettavano in noise\drone exp), Nate Nelson (batteria\percussioni) dei Mouthus e Todd Cavallo (basso).

In circa cinque anni la band è riuscita non solo a produrre una quantità interessante di lavoro (più di una ventina fra uscite in 12″ e LP), ma ad essere pubblicata dalla Ecstatic Peace di Thurston Moore (che li ha anche prodotti) nel 2009 per il disco The Door , e già prima, nel 2007, dalla No Fun Records per Remains; ora li ritroviamo dietro ad un’altra interessante etichetta dei nostri giorni: la Sacred Bones di Caleb Braaten, che dobbiamo ricordare per le uscite storiche di Blank Dogs, Zola Jesus, Pink Noise e Human Eye.

E se già nelle precedenti produzioni i Religious Knives avevano dimostrato un animo decadente, non tanto in senso romantico, ma meccanico e cerebrale, li ritroviamo ora nuovamente coerenti al loro spirito originario, seppur con interessanti innesti di forma-canzone ed infiltrazioni inaspettate.

Smokescreen vuole confondere e fuorviare. E’ una cortina fumogena (smokescreen) per occhi poco attenti e interessati ad un inconscio molto stratificato di emozioni e di collegamenti.
Come una comune di adepti dell’LSD insediatasi in una ex segheria in mezzo alla foresta, i nostri compongono un trittico iniziale che ben segue una direzione psichedelica.

Il trittico iniziale: The Message, Paper Thin e Big Police, fonde una ritmica distorta ed estatica con la fluidità della chitarra e dell’organo che tentano di elevarsi in una forma povera di mistica preghiera. Una preghiera proletaria e mezza sbiascicata che racchiude rabbia e una sottile rassegnazione.

Molto incline alle atmosfere country-ghost di Neil Young (per il film Dead Man) è Garbage Can, che, con la seguente Private Air, prova a rompere il guscio del post-rock in favore di una contaminazione dal risultato gustoso.

Una sensazione mistica e dilatata che reggerà per le successive composizioni fino al ballo di ossa e hammond della conclusiva titletrack, specie di versione zombificata dei The Doors innamorati di Silver Mount Zion.

Un disco puro nella sua maniacale creatività e che riconferma l’estro patologico-artistico di questo ensemble.