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6 Dicembre 2011 | DefJam | The Roots |
La black music non è solo vuota fierezza dei finestrini abbassati, né si riduce al glitter di muscoli, pance scoperte e gestualità rivoluzionarie con medaglioni d’oro e patacche a chiosare le rime. La black music è anche, e dovrebbe tornare ad essere, il canto della redenzione, il corpo a corpo con la sofferenza quotidiana, la presa di coscienza di una comunità che assume su di sé l’attrito con le convenzioni, gli stereotipi e l’oppressione culturale. Tutto questo si può fare anche con intelligenza, senza lasciarsi inchiodare alle barricate, aprendo alla melodia.
E questo fanno i Roots, paladini da una dozzina di album di hip hop elegante e maturo, suonato con calore da presa diretta anni settanta ma anche con la morbidezza e l’attenzione dei migliori lavori della Badu. Perché il flow non teme certo una batteria non campionata e groovey, né gli organi hammond e un bel basso pieno, anzi ne trae una vivezza ancora maggiore. La scelta estetica in questo senso s’è dimostrata valida quasi sempre, Undun non fa eccezione. Poco importa che si tratti di un concept sull’esistenza tragica di un solo individuo, quel che più conta è che la scrittura si rialza dopo la marchetta con John Legend, e il soul si affaccia ovunque con autorevolezza senza diventare vuoto citazionismo da classifica.
L’aria che si respira è ambiziosa e nello stesso tempo stradaiola: si vuole far stridere di poesia una manciata di canzoni per lo più malinconiche ma combattive, tese ma sempre pronte all’apertura indovinata e melodica (One Time, Tip the Scale, The Other Side). Sleep e Make My aprono le danze con un incedere deciso e però riflessivo, fra antiquariato soul-funk e qualche delicato tocco di elettronica, presto la temperatura si alza ma anche la lucidità, non ci si propone di narcotizzare con rabbia surgelata gli ascoltatori ma di assalirli con la contundenza del reale e, naturalmente, col mestiere sapiente di chi sa bene come indorare la pillola quando serve. Il gioco non riesce con Kool on, Stomp e Lighthouse, solo a metà con una I remember dove il ritornello non gira per troppo cerone, ma tutto il resto è un ritorno fiero a quel che i Roots hanno sempre saputo fare: misurarsi col classico senza perdere l’erezione e con una freschezza invidiabile, ancora nel 2011. Tip the Scale potrebbe passare tranquillamente alla storia dell’hip hop, o quanto meno alla top ten dei nostri, assieme a Make My e One Time.
Certo, la dirompenza non è più quella dei primi lavori, né lo stupore e l’ammirazione possono essere quelli che tributiamo a For the kids, clamoroso debutto dei già sputtanati Gymn class heroes. Ma si tratta di una riscossa importante dopo l’incerto How I got over e la marchetta Wake Up. Anche perché il disco si chiude con una suite in quattro movimenti, un po’ colonna sonora a forti tinte elegiache e sentimentali, un po’ sfogo free, un po’ logorrea classicheggiante, ma la chiusa (finality) corregge il tiro in direzione di un camerismo controllato e malinconico. A un orecchio avvezzo a certe sonorità una simile conclusione potrà sembrare naif, ma in un contesto black lo sforzo è più che apprezzabile. E per meglio valutare la solidità della carriera e del progetto dei Roots, torniamo pure al paragone con i Gymn Class heroes e la loro rapidissima decantazione verso il vuoto spinto.
Qui non ci sono liriche da saldo di fine stagione e basi pastorizzate per far muovere il ragazzo nero e far sentire più democratico e affratellato il ragazzo bianco. Qui c’è polpa.