Burzum – Umskiptar

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Dieci anni di galera in seguito alla condanna relativa all’omicidio di un collega musicista (Euronymous, vocalist dei Mayhem) e un’immersione fin troppo enfatica nell’immaginario tolkieniano, basterebbero a molti per relegare la persona di Varg Vikernes tra i grotteschi abomini da cronaca nera e lasciarcelo per sempre. Se poi di nome d’arte l’imputato fa Burzum, la questione diventa ancora più spinosa. Perché c’è da confrontarsi con un personaggio, controverso quanto volete, ma che ha scritto pagine fondamentali della storia del metal.

Diventato una specie di asceta pagano, e spulciata con occhio anticlericale la mitologia nordico-scandinava, Burzum ha continuato a fare musica, anche quando, recluso, era privato d’ogni strumento. Privo dell’equipaggiamento d’ordinanza delle milizie metal, ha esplorato territori dark-ambient tramite l’ausilio del solo sintetizzatore, approdando ad un sound diverso dal black metal old school a cui aveva abituato i suoi seguaci. Meno sguaiato e più introspettivo, sempre più rintanato (o rintronato) in una cifra stilistica dronica non sempre innovativa: questo è il terreno sul quale il Burzum post-prigionia ha mosso i suoi passi. Questo disco del guerriero nordico non fa eccezione, pur registrando un netto calo di tono rispetto a precedenti Fallen (2011) e Belus (2010).

Rinnegato ogni clichè metal, prese le distanze da un genere che non sentiva più suo in senso stretto, Burzum pare un drugo un po’ a corto di ingredienti. Concepisce la sua musica come una magia, con lo scopo di distrarre l’ascoltatore dalle fatiche del quotidiano, ma questo “Umskiptar” distrae l’ascoltatore dalle sue stesse note! Idolatria goliardica a parte, nella Terra di Mezzo tra dark-throne, metal-melodie e litanie ancestrali, in cerca della redenzione (?), purificazione (?), distruzione (?), Burzum sembra, almeno in questa occasione, più che altro confuso.