ATTITUDINE E VISUAL: Parlare di questa esperienza descrivendola come si fosse trattato di un semplice concerto crediamo che sia piuttosto riduttivo. Qui è più logico parlare di arte, senza incatenarla alle sue rappresentazioni, ma lasciandola sguinzagliata di modo che essa possa esplorare nuovi confini e creare nuove forme, spesso attraverso la fusione delle sue componenti. L’aspetto concertistico-musicale si fa momentaneamente da parte e a prevalere qui è proprio il “visivo”. Ci lasciano entrare nella sala Santa Cecilia poco prima delle nove e subito veniamo colpiti dai tre schermi posti sullo sfondo dove già vengono proiettate immagini di danzanti detriti stellari. Tempo cinque minuti, e la sala si fa buia. L’entrata dei The Kilowatt Hour viene anticipata da un rumoroso applauso e i musicisti arrivano. I tre protagonisti della serata, ovvero David Sylvian, Christian Fennesz e Stephan Mathieu, entrano come piccoli impiegati bancari brancolanti nel nero, e si siedono dietro le loro rispettive postazioni, silenziosi e seri. In poco l’opera d’arte prende forma. La sala rimane oscurata, gli unici elementi a dettare luce sono gli schermi, che ora presentano forme geometriche, ora esplosioni luminose che brillano di blu, verde e rosso, e infine pianeti a metà illuminati e movimenti lunari. Di sicuro il tutto è stato molto suggestivo sotto questo punto di vista.
AUDIO: Mettiamo assieme tre mostri sacri del genere, attenti a ogni sbavatura del suono, e l’acustica della sala Santa Cecilia: non poteva che uscirne fuori un suono preciso, perfettamente chiaro e limpido. Come ha detto un ragazzo seduto dietro di noi, riferendosi alla struttura della nota sala dell’Auditorium, mica quei pannelli ce l’hanno messi pe’ fa’ n‘alveare eh. Ovviamente no, è tutto architettonicamente studiato per ottenere il migliore dei suoni. Una cosa che ci ha colpito particolarmente è stato il suono che Fennesz è riuscito ad ottenere dalla sua chitarra elettrica: era un suono metallico, reverberato appena, e distorto, un suono che mai prima ci era capitato di sentire in una esibizione live, ma solo su disco.
SETLIST: Un pezzo di un’ora e un quarto, e lì il tutto si è concluso.
MOMENTO MIGLIORE: Impossibile dirlo visto il tipo di esibizione. Molto bella sicuramente è stata l’aggiunta di elementi letterari, come nuovo elemento dell’opera d’arte, avvenuta attraverso un reading delle poesie di Franz Wright mandato in playback. Peccato però che fosse incomprensibile ai più, noi inclusi. E non in pochi si sono lamentati della cosa, sarebbe bastato distribuire un libriccino contente gli scritti o proiettare dei sottotitoli su uno dei tre schermi, visto che tra l’altro queste letture erano di durata molto breve.
PUBBLICO: Il pubblico fortunatamente era consapevole che non avrebbe assistito ad un classico concerto di David Sylvian, come invece si poteva immaginare; ma invece erano tutti a conoscenza della diversità e della stranezza di ciò che li attendeva. Comunque anche tra i consapevoli si è tracciata una linea di divisione: una fazione, è rimasta emozionata dall’esperienza e è riuscita a viverla in maniera spirituale, un viaggio dell’Io, come si dice in questi casi; la seconda fazione invece ha trovato il tutto monotono, ripetitivo e poco ispirato, un viaggio a letto piuttosto.
LOCURA: Sicuramente divertente è stato il teatrino del pubblico a fine spettacolo. Per cinque minuti nessuno si è azzardato, nell’incertezza, ad alzarsi dai propri sedili e andarsene. Noi ci aggiungiamo a questi. La domanda che tutti si ponevano è stata Ma è finito o dobbiamo aspettare qualcosa?, i più fiduciosi si dicevano tra di loro Adesso sentiremo il lato B, vedrai che figata, ma poco dopo abbiamo visto che gli strumenti venivano smontati e ce ne siamo andati, con un po’ d’amaro in bocca, effettivamente.
CONCLUSIONI: L’esibizione è stata davvero di gran classe, come avrete capito. Ma c’è stato dell’altro? Come impiegati sono entrati, come impiegati hanno lavorato. Hanno fatto il loro piccolo dovere. Vista l’importanza storica e musicale dei tre musicisti in questione però, il risultato dell’unione non ha reso giustizia a quei nomi. Un triumvirato stellare che non è riuscito a risplendere se non di luce riflessa. I suoni, le parti al pianoforte, infinitamente reiterate, le atmosfere mai eccessivamente tese, come invece dovrebbero essere per della musica del genere, e delle video installazioni non proprio originalissime, ci hanno leggermente deluso. Se si fosse trattato di un progetto di artisti emergenti non saremmo nemmeno qui a parlarne, non sarebbe questo il luogo adatto, non sarebbe compito nostro. Tempo fa invece ci capitò di assistere a un live di Tim Hecker – lo citiamo per l’aspetto ambient-drone in comune -. Questo riuscì a trasmettere più di quanto mai avremmo ritenuto possibile da un esibizione del genere, eppure non è né un mostro sacro, né un rivoluzionario, è solo uno che sa quello che fa e lo fa con passione. Sa precisamente quale è il suo ruolo nel mondo della musica. Il trio The Kilowatt Hour no: è sembrato piuttosto un escamotage per Sylvian per liberarsi del suo passato, quello dei Japan mille e mille volte citati quando si parla di lui – ricordiamo infatti che per questo live Sylvian non ha fatto uso di quell’elemento caratterizzante che lo ha reso famoso nei decenni: la voce. Davvero un peccato, perché le premesse per un grande spettacolo c’erano, eccome.