Jacques Lacan, psichiatra e filosofo francese, opponeva l’incomprensibilità del suo discorso ai concetti di linearità, non-contraddizione e derivazione necessariamente causale sui quali poggiava la tradizionale concezione occidentale di linguaggio. Gli scritti lacaniani, anche nella loro forma, intendevano ricalcare il modello inconscio: frammentario, manchevole, perforato. Secondo Lacan, è possibile cogliere una serie di atti mancanti (come i lapsus, ad esempio), nel linguaggio comune, di ogni giorno; questi sono punti privilegiati, in cui il discorso conscio sembra lacerarsi, lasciando intravedere quello inconscio.
Nella storia della cinematografia contemporanea, c’è un regista, in particolare, che si è distinto per la propria ricerca sull’animo umano, per il suo sguardo che, in maniera continuativa, ha esplorato questo tipo di squarci, per affondare le mani nella rappresentazione del discorso inconscio: David Lynch. L’evoluzione psichica di un individuo può essere suddivisa in una serie di passaggi chiave che conducono dalla prima infanzia all’età adulta; nel momento in cui lo sviluppo non dovesse compiersi regolarmente, e si arrestasse in uno qualsiasi dei passaggi precedenti la conclusione, avremmo il subentrare della malattia mentale. Lynch si dedica alla trattazione minuziosa di questa serie di manie, perversioni, stranezze e, in generale, deviazioni dal regolare processo di sviluppo psichico. L’inconscio non costituisce soltanto la materia, il soggetto della produzione lynchiana, ma ne plasma il linguaggio. Foucault, interrogato sui testi lacaniani, disse che leggerli equivale a compiere un lavoro su se stessi.
La saggistica lacaniana ha un linguaggio complesso, intricato, oscuro, e richiede davvero che il lettore faccia tesoro di tutto il proprio bagaglio cognitivo, affinché risulti, in parte, comprensibile. Così, le pellicole di Lynch. Così, con le dovute proporzioni, i dischi di David Lynch. Come il precedente Crazy Clown Time, anche questo The Big Dream poggia sull’incedere sghembo delle produzioni musicali e sulla voce di Lynch, esile e infantile, e delinea un universo disturbante non dissimile da quello, visivo, a cui ci ha abituati. Si potrebbe obiettare che non abbiamo bisogno di altri incubi, che le nostre spalle sembrano fin troppo deboli anche solo per i nostri; questo disco toglie molto, come è giusto che sia, nel senso che esige un ascolto effettivo, non condiviso, o parziale, ma poi restituisce tutto; questo disco è il tepore e la mancanza stipati negli abbracci a cui abbiamo rinunciato, ma che non cessiamo di cercare negli altri.
Il linguaggio musicale di Lynch non si discosta tanto dal corrispettivo cinematografico, né dal pastiche citazionista e innovativo della saggistica lacaniana, né, per dire, dalla letteratura postmoderna di Pynchon o David Foster Wallace: in questo disco, rock-blues, dub, downtempo, ogni riferimento al passato diventa il punto di partenza per una ri-costruzione del discorso; un immaginario onirico si delinea con più chiarezza, con il tempo. Lacan intendeva opporsi alla psicoanalisi tradizionale, emancipando il discorso psicanalitico da un approccio alla materia prettamente scientifico: così, la filosofia, la letteratura, le arti divennero i pilastri di questa nuova concezione della trattazione psicanalitica.
L’opera di Lynch riprende il discorso dadaista (e, con esso, la pretesa di fondere il piano reale e quello immaginario in un’unica surrealtà, capace di contenerli entrambi) e lo attualizza; e a noi non resta che perderci di nuovo e scivolare.