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03/06/2014 | La Tempesta Dischi | ilpandeldiavolo.it |
Storie di asfalto bruciato e “valigie sempre pronte a partire”; storie di polvere da far mangiare e strade poco battute da percorrere tra sudore e fatica. Visioni offuscate dal caldo, come in un vecchio film western; sole che brucia l’indolenza, fughe verso sud.
John Steinbeck diceva “Il Texas è una condizione della mente. Il Texas è un’ossessione. Il Texas è una nazione in ogni senso del termine. Un texano fuori dal Texas è uno straniero”. Ecco, provate a sostituire la parola “Texas” con quella “Sud” e capirete la tensione emotiva di “Folkrockaboom”. Stranieri sono anche Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo tenacemente alla ricerca di una terra verso cui spingersi oltre, seguendo il richiamo verso sud da dove provengono e che li ha marchiati a fuoco. Il Mediterrano come luogo dell’anima: quel mare di mezzo che se non è terra è comunque di frontiera, viatico di scambi culturali, di contatto con l’ignoto, con il lontano che attrae chi non può restare, chi ha il fuoco sacro del cammino nelle gambe, chi non sa accontentarsi.
Folkrockaboom è una dichiarazione d’intenti lucidissima: “ci sembrava selvaggio e ora invece è tranquillo”, ovvero l’accettazione di una condizione umana di frontiera, l’inevitabile tensione verso l’indefinito e la riluttanza a fermarsi. “Chi sta sbagliando cosa?/chi è la spina chi è la rosa?” si chiedono nella canzone più ballad della loro carriera “Vivere Fuggendo”, a convincersi che la loro vita, fatta di chilometri percorsi in furgone, di incontri casuali e notti insonni, di repentini cambi di orizzonte, sia di fatto quella per loro naturale, quella senza la quale morirebbero. Ma attenzione, “Folkrockaboom” pur registrato in presa diretta, pur sporco e selvaggio, è un disco fortemente voluto, progettato, desiderato. Lo testimonia l’Arizona – terra in cui finalmente non sentirsi più stranieri – che li ha ospitati per il missaggio audio, in un vero proprio tempio del suono, lo studio di Craig Schumacher a Tucson – lo stesso che ha avuto fra le mani i Calexico e i Giant Sand, tanto per capirci. Niente sta lì per caso e ne denota tutta la personalità – grandiosa, non c’è che dire, possente: “Folkrockaboom” è il marchio di fabbrica sempre più consapevole de Il Pan del Diavolo. Non crediamo di esagerare nel considerare questo disco quello della cosidetta maturità, e non solo perchè è un terzo disco ben riuscito.
C’è un passo diverso, ulteriore, chiarificatore: il duo siciliano ci sta dicendo che è in grado di essere una delle realtà rock più importanti degli ultimi anni, ci dice “vogliamo diventare grandi”. Capaci come pochi davvero di utilizzare in maniera estremamente convincente stilemi così lontani dai nostri confini, adattandoli in questo caso a un mondo più vicino a quello italico. Per la prima volta c’è il tocco autoriale a lasciare il segno: i ritmi rallentano significativamente, la rapidità lascia lo spazio alla riflessione, i testi si fanno più intimisti e cantautoriali, e fanno capolino a sorpresa molte slow songs. Per la prima volta ascoltando Il Pan Del Diavolo ci sembra di non stare semplicemente muovendo la testa e i piedi al ritmo della grancassa violentata o delle stilettate infiammate sulla sei corde.
Bisogna anche dire che il tentativo a tratti non convince pienamente: a volte la metrica sembra zoppicare un po’, a volte le soluzioni risultano ancora acerbe ma anche questo è un segnale chiarissimo: lasciare la comodità di ciò che si sa fare già per provare a smarcarsi, per rimescolare le carte. Le parole quelle sono, quelle devono essere, importanti quanto la musica, e non vanno sacrificate facilmente, a costo di suonare un po’ fuori luogo (chi non ha pensato all’ingenuità di certi versi nella già citata “Vivere Fuggendo”?). Sarebbe stato forse più facile adattarle, ma non sarebbero suonate altrettanto sincere.
Curato, dicevamo, anche grazie alle collaborazioni come quella già rodata coi Sacri Cuori (la produzione è in coabitazione con Gramentieri, che compare anche in “Il Domani”) e quella fortemente voluta con Andrew Douglas Rothbard nell’incendiaria ipnosi chitarristica della strumentale “Aradia”. Le sonorità abbandonano il punk’n’roll delle origini per esplorare territori più vicini alle american roots sporcate di blues e bluegrass. Musicalmente il disco convince senza alcuna perplessità, e conferma il fatto che i due siciliani non stavano davvero a caso sul palco del South by Southwest Festival ad Austin assieme ai Wilco e a Nick Cave, e che tuttosommato Craig Schumacher abbia lasciato il suo zampino magico – nei limiti del possibile: l’ombra di Howe Gelb e dei suo ex compari Burns e Convertino è piuttosto chiara ed evidente. Episodi migliori quelli striscianti e sinistri di “Cattive idee”, “Un Classico” ma soprattutto quello in salsa tex-mex latineggiante di “Mediterraneo”, canzone che si staglia a simbolo dell’intero disco esattamente come la title track. L’estate è appena iniziata e non stupitevi se mentre viaggiate con questo cd in macchina sotto il sole di mezzogiorno vi sembrerà di intravedere un cowboy uscire dal saloon: no, non siete in America e vi consigliamo di non scendere in fretta da quella macchina, ma di continuare a viaggiare, viaggiare, viaggiare… in fondo, “se ci credi, a volte, capita”.
[schema type=”review” name=”Il Pan del Diavolo – Folkrockaboom” author=”Patrizia Cantelmo” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]