The Rust and The Fury – See The Colors Through The Rain

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19 settembre 2014 Woodworm tumblr.com

Il sole e la pioggia, la luce e l’acqua. Le gocce che rimangono sospese nell’aria dopo la furia di una tempesta; la luce che si staglia in cielo e si decompone, spezzettandosi in mille colori, infiniti, dai confini incerti, che si perdono l’uno nell’altro; l’inizio (“May The Sun Hit Your Eyes”) e la fine (“Tomorrow’s Rain”) di un disco che trova la sua esemplificazione grafica in quella copertina fatta di un iride umano dipinto di arcobaleni. Inrainbows : qualcun altro aveva chiamato così il proprio disco, e se il quartetto di Oxford non si può citare fra le dirette ascendenze delle sonorità dei The Rust and The Fury, di sicuro li si può annoverare fra i maestri ispiratori della musica che per tre quarti d’ora scarsi viene sparata nelle nostre orecchie. Dei Radiohead, infatti, c’è tutta la cura e curiosità sonora, quella che li ha portati ad esplorare territori impensabili a chi ascoltasse i loro primi lavori, la stessa verso cui tendono i TRATF e che anima ancor più del precedente il secondo disco “See The Colors Through The Rain”.

A farne risplendere i suoni e i colori ci ha pensato Andrea Marmorini di Woodworm, che è riuscito a tirar via quella patina di polvere che offuscava i già ottimi spunti intravisti in “May The Sun Hit Your Eyes”, accolto benevolmente dalla gran parte della critica e dalla solita nicchia di pubblico. Occorreva però fare un salto ulteriore, essere ancora più convincenti e meno approssimativi, e se nel precedente la materia era decisamente più coerente (un folk-rock arioso e più immediato di derivazione neilyoungiana) in questo si percepisce una maggiore attenzione per i dettagli e tutto il tempo dedicato a ciascuna trama sonora, che finisce per portarli su strade difficilmente inquadrabili in un genere tout court. L’impianto di base è sempre quello di un rock’n’roll puro e semplice, quantomeno nell’uso di una forma canzone di matrice classica, ma questa volta la semplicità lascia maggior spazio alla sperimentazione e all’uso di strumenti volti a mischiare le carte in tavola: dalla batteria elettronica ai synth e alle tastiere sparsi qua e là, ad un uso molto più libero ed evocativo delle chitarre stesse (si sente, in questo senso, l’influenza del progetto solista del chitarrista Francesco Federici aka Iononsopiùchisono) fino ad arrivare alla voce di Francesca Lisetto, usata in maniera più incisiva e graffiante rispetto al passato: uno strumento, quest’ultimo, che ha un potenziale incredibile, come dimostrano due fra i pezzi più belli del disco, la già citata “Tomorrow’s Rain” e soprattutto la tiratissima “Amanda”, storia di una ricerca d’amore disperato che porta all’autodistruzione.

I testi, a tal proposito, non sono dei semplici complementi alla musica, ma sono parte integrante e fondamentale di “See The Colors Through The Rain”, molto più di quel che si possa pensare ad un primo ascolto. Il baricentro rimane l’intimismo, la condizione umana e lo sguardo su di sé, in una sorta di schizzo aquarellato di umori e amori, di contraddizioni e precarietà inquieta alla ricerca di un posto che si possa finalmente chiamare casa. “Coming Home To Stay” rappresenta proprio questa aspirazione, e può essere considerato un pezzo chiave del disco, in cui si mescolano echi di Bon Iver e dei Wilco, in una tensione drammatica che si scioglie nel chitarrismo lancinante del finale: non fatichiamo a pensarlo come uno degli episodi che più di tutti possano funzionare live. Anche perchè dal vivo il quintetto perugino dà il meglio di sé, trovando un’alchimia stupefacente fra tutte le voci e le anime della band: un gruppo in cui nessuno dei cinque ha il sopravvento sugli altri, una piccola ensemble in cui ciascuno finisce per perdersi, esattamente come succede per i colori dell’arcobaleno. Così accade anche per i numerosi riferimenti e influenze sonore, che ci sono, evidenti – qualcuna l’abbiamo anche citata – ma che alla lunga finiscono per perdersi nel tutto, perchè potrebbero esserci almeno quattro singoli di altrettanti dischi diversi, qua dentro, cosa che di sicuro spiazzerà – e non poco – chi li ascolti per la prima volta. I pezzi più orecchiabili e pop non mancano, come “Me Here” , “Lived” e il più riuscito, con il suo climax irresistibile, “Feed Your Belly”, ma nessuna delle undici tracce ci dice in maniera univoca e inequivocabile chi sono.

A chi assomigliano i The Rust and The Fury? La verità è che non è per niente facile rispondere a questa domanda, e forse già di per sé questo è un ottimo motivo per amarli. Un altro è sicuramente per lo zelo che mettono nella loro musica, che serve a loro e che serve a chi la musica l’ascolta; una prassi tuttosommato non molto dissimile da quella descritta in “Green”: immergersi nella cura di qualcosa per dimenticarsi delle relazioni umane (I’m sorry God/ I’m sorry if your human beings/are not in my thoughts/as the way they should be) in cerca di un sé perduto in quello che qualcun altro chiamava “il quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti”. E come ci suggerisce questo disco, va a finire che la terapia funzioni per davvero.

[schema type=”review” name=”The Rust and The Fury – See The Colors Through The Rain” author=”Patrizia Cantelmo” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]