Mark Lanegan – Phantom Radio

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Il fatto che abbia ascoltato più e più volte questo nuovo disco solista di Mark Lanegan (l’ottavo? Abbiamo perso il conto tra collaborazioni, album di cover, supergruppi, duetti e varie ed eventuali) potrebbe essere sicuramente un indizio fuorviante, se non aggiungessi la circostanza per cui ciascun ascolto è stato accompagnato dall’ansia di trovare almeno un buon motivo per fugare tutte le mie perplessità su Phantom Radio. Poi finalmente, all’ennesimo play controvoglia ecco scoperta la chiave di lettura: occorre ascoltarlo partendo dalla fine. Se lo fate anche voi, riuscirete ad avvicinarvi ad esso più o meno senza grossi traumi come avete fatto con il precendente “Blues Funeral” (anch’esso permeato da una consistente necessità e desiderio di inserire elementi nuovi rispetto alla consueta liturgia laneganiana) senza dovervi ritrovare ad affrontare uno schiaffo alle aspettative come “Ode To Sad Disco” prima di uscire temprati a dovere con “The Gravedigger’s Song”.

Qui invece si parte (un po’male) con un paio di pezzi in cui Mark Lanegan imita Mark Lanegan. “Harvest Home”e “Judgement Time” sembrano entrambi messi lì per darci il benvenuto, ricordarci con chi si ha a che fare e che in fondo nulla è cambiato, ma in realtà sortiscono l’effetto di farci immediatamente rimpiangere gli album precedenti, persino quelle canzoni che negli altri dischi ti sembravano superflue e che ora vorresti fossero in scaletta al più presto. La situazione poi precipita con i tre pezzi successivi. Peggiora ascoltando “Floor On The Ocean” ma solo perché sei maldisposta: drum machine e atmosfere neworderiane non sono ciò che vorresti ora e non gliele perdoni, nonostante il pezzo in questione sia probabilmente uno dei migliori del disco. Il colpo finale te lo danno “The Killing Season” e “Seventh Day” con quei loro ritmi funkeggianti e pop (leggero è l’aggettivo che non vorresti mai associare a Mark Lanegan) che non riesci proprio ad accettare.

Ma non è così terribile come sembra, e se davvero si parte dalla fine, si trova del buono, anche perché un pezzo come “I Am The Wolf” ti ripaga di tutto e vale l’intero disco: con la drammaticità del suo arpeggio condito dal baratro vocale in cui sprofonda, sembra una versione oscura di qualche classico di Leonard Cohen. Riuscito anche il tentativo dreamy alla Jesus and Mary Chain di “Torn Red Carpet” sorta di lamento amoroso disperante in cui una voce che ha acquistato addirittura una nota di soavità si chiede “You don’t love me, what’s to love anyway?/You don’t love me, would love be my saving grace?”. No, non c’è alcuna salvezza nell’apparente leggerezza di Lanegan, lui rimane quel The Wolf sopravvissuto alla sua ombra e non può sfuggire alla sua natura, che torna anche nei synth e nelle drum machine di “Waltzing in Blue” assieme alle ossessioni di un amore annerito dalla cecità, dalle illusioni e dai fantasmi: il passato non si redime facilmente e si finisce “where wild people live” il suo posto nel mondo, in un blues amaro che spazza via tutta la festa. Tornano di nuovo i tocchi elettronici nella blueseggiante e defintiva “Death Trip To Tulsa”: le tenebre si sono di nuovo alzate e non serve essere un figlio in cerca di un dottore, perché Dio ha fatto di te un pover’uomo e un ladro solitario. Nessuna redenzione, nemmeno questa volta.

Anche noi, effettivamente, non sappiamo se redimerlo o meno. La presunzione è stata tanta, in questo Phantom Radio: Lanegan sembra in lotta con sé e con la sua ombra, vorrebbe forse liberarsene ma finisce col confermare che di cose da dire, quando smette di fuggire da se stesso, ce ne ha ancora e di grande qualità. Anche perché sperimentare nuove vie è cosa buona e giusta, ma buttar via la propria identità, specie se ancora così viva, forse non giova e lo dimostra il fatto che i brani più convincenti sono quelli dove le chiare influenze eighties – questi eighties che paradossalmente rientrano dalla porta principale, proprio loro che erano stati spazzati via dall’uscita di sicurezza del grunge – si mischiano all’impronta sinistra e catacombale del buon Mark.

Non si può dire certo che questo sia un brutto disco, ma quante altre volte lo avremmo ascoltato se non fosse stato marchiato da un nome così attraente come quello di Lanegan? La domanda rimane irrisolta, ma alla fine di cose buone qua dentro ce ne sono abbastanza per non farcelo andare ancora di traverso. Sperando in una futura, magari pur sempre rinnovatrice, riappacificazione del buon Mark con la sua natura. Ululante.

[schema type=”review” name=”Mark Lanegan – Phantom Radio” author=”Patrizia Cantelmo” user_review=”3″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]