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13 Ottobre 2014 | blackesteverblack | williambennett |
William Bennett è un vero agitatore, un rivoluzionario. Dai primi vagiti nella scena Punk-Rock d’inizio anni Ottanta: in band come Essential Logic e Come – in compagnia di Daniel Miller e J. G. Thirlwell Ndr -, viene presto incluso nel progetto Power Electronico/Rumoristico ‘Whitehouse’ – Il nome era un bizzarro incrocio fra Mary Whitehouse, la promotrice delle campagne moralizzatrici nel Regno Unito, e l’omonima rivista porno Inglese -. Era il 1982, Bennett si diceva ispirato da Yoko Ono. Si appassionò di ‘Italo Disco’ e trasformò il suo nickname da Dj in ‘Dj Benetti‘, rimanendo costantemente alla ricerca delle radici del suono.
Fu probabilmente la Spagna, precisamente Madrid, a cambiargli la vita. Li conobbe Raoul, sacredote ‘Santero’ – Da ‘Santeria’, termine dispregiativo in voga nel colonialismo Spagnolo per definire quegli schiavi, soprattutto Cubani, che manifestassero un sentito attaccamento verso i Santi appartenenti alla religione Cattolica Ndr – proveniente dal Congo, che gli insegnò come maneggiare lo Djembe – Tamburo dell’Africa Occidentale -. Quel suono e la musicalità appartenente a quelle terre lo colpirono immediatamente. Ne venne travolto culturalmente, incredulo di come si potesse far musica con poco o nulla – Rocce, metallo, legno, insomma tutto quello che potesse emettere un suono se percosso Ndr -. Per lui una grande lezione che caratterizzò fin da subito il progetto Cut Hands.
Parola d’ordine: sottrazione. Una rivoluzione che lo porterà al ridiscutere il concetto stesso di ciò che viene accettato come ‘rumore’ nel nostro occidente. La critica che Bennet promuove nel propri lavori a firma Cut Hands, poggia sull’ormai digerito condizionamento che la musica occidentale ci impone da quasi un secolo. Chi ha deciso che un accordo minore ripetuto generi malinconia, mentre una combinazione di accordi maggiori provochi diversi effetti emotivi tra cui la gioia?. Si chiede. Il rumore ‘accettato’ dal fruitore musicale medio, è forse un grappolo di effetti a pedale legati ad una dozzina di accordi?. Bennet chiede di più, vuole provare a far ballare l’intero sistema nervoso.
Il processo creativo che ne consegue, portato alla sublimazione in questo ‘Festival Of The Dead’, utilizza appunto le peculiarità delle percussioni poliritmiche appartenenti alla tradizione Africana, come a quella ‘Vodoun’ Haitiana, aumentandone i giri, sovrapponendone una decina alla ricerca di quel punto ‘zero’ in cui il cervello smette di muovere gli arti a tempo, collassando, entrando in trance. Questa cosa in realtà, lo affascina e diverte molto. Specie quendo effettua test ‘gratuiti’ in locali misconosciuti, altrenando motivi poliritmicamente accettati dalla morale comune oltre che dal nostro cervello, per poi aumentarne esponenzialmente la complessità, osservando le reazioni in pista. Dev’essere molto divertente uscire con William.
Ne scaturice un ‘Afro-Noise’ dalle tinte vagamente Techno-Industrial – Ma non diteglielo mai, da buon rivoluzionario odia essere incasellato Ndr -, coadiuvato in sede live da filmati ed immagini incentrati sulla pratica del rito voodoo. Una musica Caraibica suonata da Zombie in acido, anticonformista, libera.
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