H. Hawkline – In The Pink Of Condition

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H. Hawkline è un tipo secco secco, con il capello arruffato e la chitarra sempre in quella posizione “alta” che è la peggiore, esteticamente parlando. Nelle interviste guarda di rado l’interlocutore in faccia, ci pensa, prende la rincorsa e poi risponde con una meticolosità e un’apertura abbastanza disarmanti. Viene un po’ da chiedersi cosa ci sia andato a fare a Los Angeles un gallese che la patria la sa rappresentare così bene nella musica, nell’aspetto, nel nome (Huw Gwynfryn Evans). Certo, in parte la migrazione è un affare dettato dalla collaborazione con Cate Le Bon (dopo quella con Gruff Rhys, altro connazionale), con lei che ha prodotto di fatto questo In The Pink Of Condition. Quella Cate Le Bon che ha percorso lo stesso identico itinerario. Ora, al di là delle intenzioni e delle aspettative, questa migrazione oltre oceano di Huw pare aver quasi enfatizzato i suoi tratti più britannici.

Di primo impatto In The Pink Of Condition è un ricco pasticcio low-fi che non dista troppe miglia né da un Mac Demarco, né da un Ty Segall. Invece, andando giù in profondità risulta quasi un compendio di riferimenti britannici. Riferimenti che evidentemente sono stati digeriti e risputati attraverso lo spirito di un onnivoro ragazzo degli anni ’10. Per esempio “Isobelle” può richiamare “Bugman” dei Blur, così come “Bugman” richiamava “Suffragette City” di Bowie. Ma, grazie alla scienza degli anni ’10, “Isobelle” non ha niente a che spartire con “Suffragette City” ed è in questo gioco di rimandi montati e smontati, coperti ed enfatizzati, che si muove alla perfezione questo disco. Il chitarrismo di H. Hawkline è semplice ed efficace sia quando prova a ridisegnare le trame degli Smiths che quando ciondola scordato alla maniera di un Graham Coxon. La produzione che sottolinea le parti affilate più che le rotondità (“Sticky Slithers“) non intacca minimamente il senso brillantemente pop di cui questo lavoro è veramente gonfio. Ci sono momenti di natura più malinconica (“In Love“) che però hanno il potere di farci riappacificare con il mondo, ballate più impetuose (“Moons In My Mirror“), scosse che percuotono le fondamenta della scrittura diretta e insieme raffinata di H. Hawkline (“Ringfinger“). Volendo, si può asserire che la componente più folk giochi anche con qualche eco di Donovan in “Everybody’s On The Line“, uno dei momenti più riusciti dell’album. Dopo una serie di pubblicazioni di nicchia (per il numero esiguo di copie ancor più che per i contenuti), un po’ confusive sebbene importanti, il primo album “vero” fotografa questo artista nell’esatto momento in cui dispiega le sue ali.