Etruschi From Lakota – Non ci resta che ridere

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Ogni volta che si parla di natura, io entro nel panico. La natura non mi riguarda. Sono cresciuto in città. Questo è il mio credo. Ma a volte un pensiero mi attraversa, durante le abluzioni mattutine, difronte allo specchio:

“Che ne sai tu di un campo di grano?”
“Niente”. Mi rispondo.
“E di un campo di carote?”
“Ancora meno”.

Come ho detto, sono cresciuto in città. Questo è il mio credo. Schiavo di Roma Iddio mi creò. Che il cibo finisca sul mio piatto, e poi nel mio corpo, ormai è scontato. L’agricoltura non m’interessa, e neanche gli orti urbani. Preferisco la New Wave. Ciò non toglie che, la mattina, io ami cantare Battisti, ma anche Gaetano & Graziani. E ultimamente anche gli Etruschi From Lakota, magari davanti a una bella ciotola di Cornflakes, o “Cornflacherz“, come direbbe Dario Canal, frontman della band, storpiando, con ironica e graffiante vocalità, il simbolo di un certo provincialismo, o peggio, di un certo colonialismo culturale: il cervello degli italiani, come un campo coltivato a “Cornflacherz”, appunto.

Il brano in questione, seconda traccia, nonché primo singolo estratto da “Non ci resta che ridere” nuovo album degli Etruschi, a due anni di distanza dal loro esordio “I Nuovi Mostri“, è un fottuto tormentone, una di quelle canzoni che ti si appiccica in testa, tipo adesivo cerebrale, e non se ne va più. Merito di un riff azzeccato, di una melodia travolgente, e di un testo spassosissimo, invero un po’ avaro nell’uso della lettera erre.

“La mia generazione è attratta dall’Inghiltera,
ma io preferisco il profumo della mia tera

Ad ogni modo, la natura per me rimane qualcosa di perturbante. A malapena conosco l’Agro Pontino, il cosiddetto Canale Mussolini, figuriamoci l’Abetone, o i campi di carote di cui parlano questi cinque scalmanati da Montecastelli Pisano, che frullano folk, rock, blues, country, e sprazzi d’Irlanda, con impeto punk ed iconoclasta anche quando i ritmi rallentano (“Il contadino magro“). A pensarci bene, è un vero peccato che “Cornflakes” non abbia occupato militarmente le frequenze di ogni radio italiana: mentre invece il fatto che Dario Canal, intonando la parola “patate”, ricordi Ivan Graziani che ruba, o meglio, che si riprende la “Monna Lisa”, è cosa buona e giusta. Verso la fine del brano, viene citato integralmente il ritornello di “Who Said” dei Planet Funk, dal loro best-seller “Non Zero Sumness“. Avete presente?

“I’ve never been to the Usa. I’m a slave for the minimum wage. Detroit, New York, and L.A. But i’m stuck in the U.K”

Oltre alle citazioni musicali, gli Etruschi, per arricchire il tessuto narrativo delle loro canzoni, ricorrono a svariate citazioni cinematografiche. Basti pensare al titolo del loro disco d’esordio “I Nuovi Mostri“, che magari a qualcuno ricorderà solo il titolo di una rubrica settimanale di “Striscia la Notizia”, mentre ad altri, almeno spero, riporterà alla mente il seguito de “I Mostri” di Dino Risi, film satirico a episodi che offre tante variazioni sul tema del “pessimismo storico”.

Stavolta, il punto di partenza è ovviamente “Non ci resta che piangere“, cult del cinema italiano con Massimo Troisi e Roberto Benigni, che gli Etruschi, da bravi umoristi, o Giani Bifronti, se preferite, hanno mutato in “Non ci resta che ridere“. Le liriche del brano d’apertura, che porta lo stesso titolo dell’album, riassumono, in un pugno di versi, i primi minuti della pellicola.

“Una volta, metti con Mario
di perdersi per la via,
catapultati, quasi per caso,
in un tempo ormai passato
E adesso, senza luce,
pisci fuori dal balcone,
incapace d’inventarti
nemmeno uno sciacquone”

Esco dal bagno. Vado a fare colazione. Poi ci torno per defecare. I fiocchi di mais hanno funzionato. Ed è allora che, contravvenendo ai versi della title-track “riesco ad inventarmi uno sciacquone“, inizio a viaggiare nel tempo insieme al disco degli Etruschi. Chissà perché. Misteri dell’Idraulica Romana, e della Storia Stratificata. Inaspettatamente, mi trovo in un nuovo mondo, dove il canto di un gallo fa esplodere l’uovo di Colombo, dove il contadino Abramo si trascina fino a San Pietro, per dirgliene quattro al Padre Eterno prima di tirare le cuoia; e dove gli Etruschi, come neonati Pellerossa, riconquistano Roma guidati da Toro Seduto, mentre il settimo cavalleggeri di Custer affonda nel Tevere, insieme alle tre caravelle .Infine Marco Ferreri, intento a girare il remake di “Non toccare la donna bianca” grida: “Stop!“.

Eccomi, sono dentro il letame. Riesco a sentire, al di sopra della superficie, il respiro del contadino magro, sfiancato dal lavoro, schiavizzato dal denaro, umiliato dal padrone. Sta bruciando tutto. Tutto il suo passato. Mentre io sono qui. Nella merda. Letteralmente. Un cane nero si aggira nella notte. Suona un’armonica a bocca. Sembra un diavolo che ride di te e di me. E così, dopo che Abramo ha cercato il cielo in una stalla, posso lasciarmi andare alle note della bellissima “Erisimo“, ballad che all’inizio sembra uscita fuori da “Led Zeppelin III“, e più avanti dall’album “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano. Comunque, sono ancora qui, immerso nel letame. E non c’è speranza che ne esca fuori/fiori. Tanto per citare un altro film di Massimo Troisi: “Le vie del signore sono finite“.

“Abramo, sei solo un invasato mentale
Abramo, stai zitto! Non bestemmiare!
Sei un cattivo esempio
per tuo figlio e per l’umanità!”

Incredibile. Sono fuori! Abramo deve avermi calpestato e portato via con sé. E dopo aver brindato alla giovinezza che fu, sulle note rassegnate di “Nella vena di vino“, in uno scenario alla “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, ecco che siamo all’altezza di una delle sedi romane della “Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno”, nel quartiere Prati, per la precisione sul segmento di Lungotevere Michelangelo. Perché vi dico questo? Lo sapevate che i fratelli Kellog, inventori dei Cornflakes, erano avventisti? Beh, ora si. Mentre intorno a noi risuona la predica di “Gioioso Baccano“, ci muoviamo, sulle orme di Michelangelo, alla volta del Vaticano, dove si conclude la tragicomica parabola di Abramo, e con essa il concept-album.
Così San Pietro, rivolto ad Abramo:

“Avrai stipendio assicurato,
accesso illimitato al Paradiso,
armadietto vicino a Cristo,
infondo al corridoio”

Cos’altro si può dire? Che siamo difronte a un disco dignitoso, che i ragazzi si faranno, che in tempi di carestia ogni buco è galleria? No. Nient’affatto. Questo è uno dei migliori album italiani usciti negli ultimi anni. Dovete ascoltarlo. Anche solo per scoprire tutte le chicche che contiene al suo interno, dall’inizio alla fine, e che ora non sto qui a svelarvi. Ma sopra ogni cosa, rimane la bravura e la grinta di questi cinque ragazzi toscani, che riescono ad essere originali ed innovativi, pur suonando musica vecchia come il cucco, proprio perché la musica bella, se suonata con lo spirito giusto, non invecchia mai. Gli Etruschi uccidono ancora. Ascoltateli. Date retta a uno stronzo.