Blur – The Magic Whip

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Sono passati 16 anni da quando l’attesa di 13 (per certi versi l’ultimo vero album dei Blur) veniva alimentata anche da un memorabile live trasmesso allora da Radio2. Lo show segreto tenuto lo scorso marzo da Albarn e i suoi al Mode di Londra e diffuso via web ha avuto una funzione simile in un’era geologica altra, magari negli stessi cuori di chi ha amato le metamorfosi della band e del suo leader.

Per molti, Blur vuol dire quella fase più rumorosa, per altri quella più baggy, per altri ancora quella pop (magari per maledirla). Poi c’è chi parte dal fondo, dall’Albarn solista, chi dai fumetti, chi dal Mali. C’è chi si è perso qualche pezzo o chi qualche pezzo lo ha sottovalutato. Quando un gruppo si riunisce, in fondo, va incontro a due scenari possibili: riprendere dal punto dell’interruzione o considerare che è passata una vita dall’ultima volta. Nel primo caso si vince quasi sempre perché la nostalgia è canaglia, ma è una vittoria effimera e di scarsa tenuta. Nel secondo il rischio è alto. Ecco, quel live al Mode poteva dare l’impressione di un rientro in carreggiata all’altezza dell’anno 1999: materiale capace di alternare dissonanze, cori da Blur e momenti dilatati.

The Magic Whip, invece, non è solo questo e non si esime dal prendersi quel rischio. In effetti, i Blur alla fine dei ’90 volevano distanziarsi dai colori e dalla leggerezza (apparente) di dischi come “The Great Escape” e “Parklife“. La voglia di Pavement manifestata in quegli anni andava di pari passo con le dichiarazioni di Albarn su come non volesse più somigliare a quello che anni prima faceva il pieno d’imbrocchi, di bevute e d’insulti ricevuti dai Gallagher. Tre cose non sconvolgenti, peraltro. Oggi quel bisogno di distanza non c’è più, così come non c’è neanche la necessità di buttarsi in un parco giochi alla “Girls & Boys“, a questa età. Che The Magic Whip non sia un Greatest Hits lo testimoniano “Ghost Ship” e “Thought I Was A Spaceman“: due pezzi (quasi Soul il primo, ad alta saudade il secondo) che non avrebbero trovato spazio in nessun album dei Blur. Il resto delle canzoni, più o meno sì, forse. Ma non è tanto da cercare cosa somigli a cosa, quanto ammettere la qualità intrinseca di un lavoro sorprendente per ispirazione, cura e profondità nel rappresentare il suono dei Blur restando equidistante tanto da una sua banalizzazione che da un’adultizzazione inutile.

The Magic Whip è bellissimo proprio quando lascia l’acceleratore (“My Terracotta Heart“). “New World Towers” è una ninna nanna di una semplicità estrema, con sopra spazzole e ricami che la rendono tra i momenti più alti di questo ritorno. Ascoltando il precipizio “Pyongyang” si è talmente sorpresi dalla vertigine da poter anche perdonare il plateale riferimento a “Cold” dei Cure. “Lonesome Street” e “Go Out” sono già solido repertorio: prove inconfutabili di come la presenza di Graham Coxon non sia prescindibile. La chitarra dei Blur ciondola e tiene il timone in uguale misura: sponda e calice per la voce e la scrittura di Albarn. E tutto il resto di questo lavoro sta lì, in un sospeso senza tempo, a definire l’essenza di una band che sembra esserci sempre stata.