RoBOt 08 @Bolognafiere – 09.10.2015

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Attitudine e visual
Otto anni di festival dedicati interamente alle arti digitali e alla musica elettronica internazionale, otto anni di impegni e di miracoli: questo è il roBOt 08. La nuova edizione parte forte con gli interessantissimi set e le performance di Palazzo Re Enzo (Bologna), per poi spostarsi sui mega-dancefloor della fiera. Il tempo ha iniziato battere alle 23.00, senza abbassare il tiro fino all’alba. Tre i palchi (uno in più rispetto alle scorse edizioni) il mainstage dei big, l’outdoor stage con particolare attenzione alle sperimentazioni e alla ricerca tecnica e il Red Bull music academy stage vetrina d’eccellenza per le nuove promesse e per qualche colosso trasversale. Così la line up di questo venerdì ha visto 16 artisti esibirsi ed esplorare i più disparati territori musicali.

Dopo gli opening di Stromboli, Bienoise e Opium Hum il ritmo incalza e la fiera prende lentamente le sembianze di un club. Tanta attesa per il duo JETS ma quello di Jimmy Edgar e Machinedrum si rivela un matrimonio tra ricchi che ha mancato di pathos, adrenalina e sospensioni emotive. Sul mainstage Squarepusher sale in cattedra e si riprende il pubblico a ferrate di drum’n’bass e noise-jazz, facendo tabula rasa di ogni legge ritmica. La scuola warp dopo vent’anni non pecca e sorprende ancora. Alessandro Cortini scende dal podio dei Nine Inch Nails e regala a Bologna se stesso e il suo nuovo lavoro “Risveglio”, lo storico produttore Adrian Sherwood e il giovane Pinch uniscono le loro anime anagraficamente lontanissime in un’unica vertigine di meraviglioso dubstep old school.

Da qui seguono le rivelazioni della serata. L’astro nascente Evian Christ è pronto a sfatare consapevolmente le leggi dell’hip hop – dopo l’approvazione di grandi come Kanye West e il regista Matthew Barney – lasciando un ottimo ricordo al suo primo pubblico Italiano. La piccola Lena Willikens con il suo faccino pulito da scolaretta, prende le redini dell’outdoor stage dando lezioni di architettura e fantasia, muovendosi come nulla fosse tra i ritmi modellandoli con rara classe: dall’EBM all’house, dalla techno alla wave. Una Lena implacabile, così piena di risorse da musicare – solo poche ore prima a Palazzo Re Enzo -, il film: “Japanese girls at the Harbor” di Hiroshi Shimizua.

Nel mainstage intanto si prepara il gran finale con il b2b di Ben UFO e Jackmaster, uno scontro tra alleati e irrefrenabili combattenti del groove elettronico. Tutto è pronto, e Nina Kraviz chiude le danze come solo lei sa fare. Il floor si scioglie al suo glamour-touch, Nina esplora i mondi del 4/4 dal passato al futuro, coinvolge, picchia, armonizza e sulle note di un classico della trance anni ’90 (Age of love – The age of love – Jam & Spoon watch out for stella mix) si accendono le luci e scrosciano gli applausi. Al roBOt è giorno, un bel giorno.

Audio
Difficile poter gestire 16 set su 3 palchi in 6 ore, sono questi stessi numeri a parlare e l’inevitabile scontro ambientale tra i grandi spazi e i mixer, ha fatto come nelle migliori occasioni i suoi danni, di certo qualche giovane artista ha giocato male la sua partita e si è nascosto dietro ai questi problemi tecnici, qualcun altro come Squarepusher ha dato libero sfogo alle proprie conoscenze e doti ingegneristiche strappando frequenze di profondità inimmaginabili per una simile location. Le lamentele su un prodotto digitale svilito dalla qualità del suono sono pressoché fuori luogo in simili contesti.

Pubblico
Quello del Bologna fiere è uno spazio enorme che ha inibito il ballo e l’attenzione dei primi timidi spettatori, ma nessuno o quasi è stato vittima di noia, il roBOt come ogni buon festival di ricerca gode di un pubblico curioso, aperto e paziente alle attese. Per via delle ovvie sovrapposizioni dei set sulla time-line è risultato impossibile soddisfare il desiderio di ubiquità dei più onnivori ascoltatori, ma è stato semplicissimo e stimolante spostarsi da uno stage all’altro costruendo un percorso musicale personalizzato. La risposta del dancefloor è quindi arrivata un po’ tardi a causa degli assestamenti, ma a conti fatti è stata cultura e ballo libero in ogni istante, come da copione.

Locura
Levon Vincent assieme a Nina Kraviz era una delle esclusive nazionali del venerdì notte. Era senza dubbio uno degli artisti più attesi, ma alle 21.00 della sera stessa con un web-post Vincent ha annunciato l’abbandono per infortunio. Una perdita non da poco che ha comunque dato la possibilità a Jimmi Edgar di riciclare se stesso in veste di dj sostituendolo dopo la stancante esibizione di inizio serata con il progetto JETS.

Il vero fattaccio tecnico (o apparentemente tale) è scaturito dall’altrettanto attesa esibizione di The Bug, indiscutibile inventore britannico del suono grime. La sua performance ha peccato di qualità sotto ogni aspetto tecnico e sonoro e si è colto nell’artista un vero e proprio disagio, sorretto solo a tratti dalla voce rappata di Flowdan, lo stesso Flowdan che è stato dimenticato in albergo mentre il suo soundmaster cominciava l’esibizione on stage. The Bug è stato informato dell’accaduto con una telefonata a set iniziato e si è pubblicamente scusato con i suoi fans. Il giorno successivo con un post su Facebook e Twitter, ha comunque risposto alle lamentele descrivendo come “irrimediabili” le problematiche tecniche verificatesi fin dal primo sound-check. Ha così concluso e salutato il pubblico dello stivale: “Italy is always chaos..Low and behold…hahaha. Italy, til next time (I hope…)

Conclusioni
Una serata entusiasmante, come probabilmente tutto il festival. Quello del roBOt è un animo credente e instancabile, un progetto unico per l’Italia, fatto di grandi i nomi, grande organizzazione e cura dei dettagli. Il tema guida, inerente all’accelerazione (#XLR8) e relativo all’individuazione di nuovi talenti nell’ambito delle arti digitali, lascia trasparire vera devozione per questo tipo di sonorità. Pur essendo nel 2015 raramente nel nostro paese si tende a dare il meritato senso al lavoro di un dj o di un performer digitale, il roBOt ha donato spessore e consistenza a questo concetto, interpretando l’arte del djing come tale: una fonte creativa di suoni e di mondi esplorativi.