Eagles Of Death Metal – Zipper Down

Acquista: Voto: (da 1 a 5)

A volte non è facile distinguere il puro divertissement dall’umorismo più dolente. Spesso sono due facce della stessa medaglia. La prima ride, la seconda piange. Ma lo fa di nascosto, alle spalle dell’altra. E così, ecco che “Zipper Down“, il quarto lavoro in studio degli Eagles of Death Metal, che sulle prime potrebbe sembrare solo la carnevalata rock di due vecchie volpi, apre invece più di una finestra, più di uno squarcio riflessivo sullo stato delle cose (musicali, perlomeno).

Per chi non li conoscesse, gli EODM sono una band nata più di un decennio fa dalle menti di Josh Homme e Jesse Hughes. Il primo, si sa, è più famoso dell’altro. Il primo, coi suoi Queens of the stone age,ma anche con i Kyuss, ha composto alcuni fra i dischi più intriganti degli ultimi quindici anni. Ma il secondo, perfetto alter ego del buon Homme, è la vera anima pulsante del progetto. Un progetto che ha ben poco a che fare col death metal. Ma molto a che fare con la morte del rock.

Come i fantasmi della prima stagione di “American Horror Story“, i due si muovono in un eterno presente, dove il concetto di passato e di futuro non ha alcun senso, perché tutto ritorna di continuo. E il caro vecchio rock. simile ad un baule lasciato in soffitta, o in questo caso sarebbe meglio dire sepolto nel deserto, diventa campionario assortito di stratagemmi, di assonanze, di citazioni, e ovviamente di parodie. Se l’attacco di “Oh Girl” non stonerebbe in un vecchio album dei Bon Jovi, qui e là, in questa piccola casa dei fantasmi, si potranno incontrare gli echi vocali del Brian Eno di “Here come the warm Jets“, lo spettro di Jack White e dei suoi tentacolari side-projects, “Save a Prayer” dei Duran Duran in balìa dei cannibali, i Wolfmother stecchiti dopo l’ultimo ululato, lo stomaco rigonfio dei Tenacious D, la cirrotica frenesia dei Murder City Devils, misconosciuta band a metà fra lo stoner e il punk.
E tanto altro rock che fu, dai Thin Lizzy fino agli stessi Queens of the stone age.

In definitiva, a voler sintetizzare: una parata grottesca di ectoplasmi. L’ennesimo grido di dolore del revival, mascherato da festa alcolica. Un revival, questo, che non è più emulazione, non è più copia, ma condizione necessaria per cercare ancora di dire qualcosa, di salvare un riff, o una canzone, dal mare della complessità.
Non a caso, recita il singolo di lancio: “It’s so easier without complexity“. E In un profluvio di “Oh baby” e “I’ve got the power” gli EODM portano a casa un altro capitolo del loro rock giocoso, su cui stendiamo una funebre risata.
Ah già, quasi dimenticavo, il disco si lascia ascoltare.