I titoli di testa di “The Reflektor Tapes”, il film (documentario?) che non ti aspetti se sei un fan sfegatato degli Arcade Fire, si apre con un’avvertenza: è altamente sconsigliato a chi soffre di epilessia fotosensibile guardare queste immagini. Forse un’esagerazione? Ci sto ancora pensando. Il lungometraggio, diretto da Kahlil Joseph che ha avuto l’onore di entrare nel mondo artistico della coppia Win Butler/Régine Chassagne, è in effetti un rutilante e frammentato accrocchio visivo e sonoro, un trip nervoso fatto quasi esclusivamente di fotogrammi scollegati, che cerca di ridare al pubblico l’immagine di una band mentre prende atto del proprio successo planetario, facendo un ostico paragone con Elvis, e intraprendendo il classico “viaggio alla ricerca delle proprie radici” – come segnale di evoluzione e salute, divertendosi al carnevale di Haiti. La cosa più interessante del film è la colonna sonora, ovvero i pezzi degli Arcade Fire al rallentatore, per rendere l’idea del “making of”. Non so perché (ma in fondo lo so) mi sono immaginata prima i Low che fanno una cover degli Arcade Fire, poi Régine Chassagne che canta una canzone dei Low.
The Reflektor Tapes NON è un documentario su come nasce un album: è un film su quello che passa per la testa di un gruppo icona del pop rock orchestrale, divenuto leggendario in un circuito fondamentalmente omologato ad alcune semplici leggi che regolano l’entertainment, un circuito di persone che magari credono di essere diverse da quelle che vanno a un concerto di Tiziano Ferro. Anche la musica “rock” figlia degli anni 90 doveva avere il suo picco parossistico ed è per questo che gli Arcade Fire ce li meritiamo: sono la perfetta espressione dei gusti di un popolo di ascoltatori che vuole essere melodicamente trascinato e vuole sentirsi mediamente rock. In fondo gli Arcade Fire del 2005, “la band indie più cool d’America” (recitava ai loro esordi la rivista Rolling Stone), sbarcati al Transilvania di Milano per il tour di Funeral, un po’ sgangherati, che fanno il trenino in mezzo alla gente, sono gli stessi di oggi con il valore aggiunto che “ce l’hanno fatta”: hanno fatto la scalata, dai bassifondi dell’indie fino alla vetta delle classifiche, sono il lato commerciale “buono” della medaglia. A tratti anche quello più insopportabile, per certi versi; quello più ingenuo, per altri.
Per fuggire dai ghirigori barocchi e dai balletti torniamo ai Low e alle mie fantasie sugli scambi di cover con gli Arcade Fire. “Ones and Sixes” è il loro nuovo disco. I Low sono un’altra faccia di quella medaglia convenzionalmente chiamata indie rock: la coppia Alan Sparhawk/Mimi Parker si guadagnano fin dall’esordio, con l’album I Could Live in Hope del 1994, la nomea di gruppo simbolo del “genere slowcore”. Nella loro formazione classica e minimale restano, similmente agli orchestrali canadesi Arcade Fire, un gruppo autoreferenziale: insomma, non dobbiamo aspettarci che uno dei loro dischi ci stupisca perché è diverso da quelli precedenti. Sarà al massimo un bel disco dei Low, come lo è Ones and Sixes, l’undicesimo album di una carriera passata nelle retrovie dell’indie mainstream, senza mai tradire con strane impennate la loro stretta cerchia di fan – a parte forse per la geniale intuizione di coverizzare una canzone come Stay di Rihanna o Africa dei Toto – le trovate entrambe su youtube se cercate bene e vi assicuro che meritano. Lo stesso guizzo li fa uscire un po’ dal seminato in pezzi come “What Part of Me”, uno dei brani più leggeri e ritmati del nuovo lavoro, e “Landslide”, scura e psichedelica fino all’estremo. Ma i Low sono i Low. Aggiungono più ritmo ed elettronica (gli stessi ingredienti di Reflektor degli Arcade Fire) ma restano nella culla dello slowcore emozionale: non si rischia nessun attacco di cuore con brani come “Into You”, giusto un po’ di sprofondamento interiore e qualche lacrima.
Ai tempi degli Arcade fuggivamo dal grunge e dai minimalismi sinfonici alla Mogwai: oggi, per la legge di compensazione i Low di “Ones and Sixes” sono qualcosa di giusto, ed è molto probabile che il 20 ottobre al Teatro dell’Antoniano di Bologna faranno un concerto per pochi ma buoni. Fu così anche per gli Arcade Fire nel maggio del 2005 in quel locale milanese che chissà se esiste ancora, io c’ero e fu un bellissimo concerto.