Chairlift – Moth

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I Chairlift hanno fatto parte di quella importante scena di Brooklyn che appena dopo la metà degli anni zero lasciava germogliare band come MGMT e Yeasayer. Di quel periodo intenso, artistoide e un po’ freak, qualcosa è andato perso e qualcosa è rimasto. La scomparsa di una scena — nel senso del venir meno di alcune contiguità e connessioni — ha lasciato che le band in questione si evolvessero con una certa discontinuità. Sono tutti cresciuti, forse a scapito di quel modo sognante e appassionato di guardare il mondo come una giostra colorata su cui salire al volo. Erano tutti con le fasce in testa e gli stracci addosso. I Chairlift, in particolare, da trio sono presto diventati due e la personalità di Caroline Polachek è emersa quasi al punto da coincidere simbolicamente con il nome del gruppo.

Ora, senza girarci troppo intorno, il punto è che la frontwoman dei Chairlift è da sempre un concentrato di grazia, rigore, eleganza e sicurezza in una misura che altrove troviamo di rado. Le sue doti d’interprete sono il valore aggiunto alla scrittura dei Chairlift e il suo tocco discreto è il tratto che può differenziare una buona canzone pop da una canzone pop dei Chairlift. In un effluvio di personaggi caricaturali, di dissing incrociati, di mani alzate, la Polachek è quella che da un banco qualsiasi, lì in mezzo alla classe, quasi banalmente risponde alle domande impossibili. Dopo un secondo album eccellente (Something) e un disco solista a nome Ramona Lisa poco rilevante (Arcadia), siamo di fronte a un capitolo che non è privo di pecche.

Moth è composto per la maggiore di pezzi lenti: canzoni adagiate e morbide che però rubano la scena al tipo di brani che ai Chairlift riescono meglio. Qui si fatica un po’ a scorgere l’equivalente di una “I Belong In Your Heart” o un corrispettivo di “Met Before“. Dopo le perplessità iniziali, piace la quasi trap del primo singolo “Ch-Ching“. L’apertura “Look Up” e la chiusura “No Such Thing As Illusion” rispettano il nome della band. Ma soprattutto, dallo sfondo si staglia “Moth To The Flame“, entusiasmante e vanitosa. Probabilmente è il momento più pop del disco, quello più uptempo, più dancey e allegrotto. Ma la suddetta spensieratezza trova un contraltare nell’esecuzione impeccabile di Caroline Polachek che alla sua maniera ci ricorda cosa voglia dire interpretare. Vuol dire prendere una linea graziosa, forse innocua anche se ispirata e darle la propria impronta, ritagliarla sulla propria bellissima sagoma e restituirla come se tutto questo fosse una cosa semplicissima. Probabilmente dipenderà da lei, dalla sua sagoma, dalla sua grazia, dalla carica sognante che aveva dieci anni fa e che forse non ha perso.