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Marzo 2016 | autoprodotto |
Ritorna lo Zero, anche dopo gli anni Zero, dopo “Zero” dei Bluvertigo, e dopo “Cella Zero” de I Giardini di Chernobyl. Ritorna lo Zero, con tutto il suo portato in termini di possibilità, di simbologia, di fascinazione esoterica. E poi il deserto. La psichedelia. Lo stoner. Qualcosa degli A Perfect Circle, forse non solo qualcosa. Infondo sempre di Zero si tratta. Lo Zero spicca, troneggia, sull’artwork suggestivo di “0”, appunto, dei Diana Spencer Grave Explosion. Vengono da Bari. Cantano in inglese. E suonano anche in inglese, con inflessione statunitense. Deserto del Texas. Deserto del Nevada. Deserto dell’anima? Per scoprirlo, vieni a ballare in Puglia. Ma niente Pizzica stavolta. Niente Notte della Taranta. I tempi si dilatano. La band si perde fra i fumi lisergici di una tempesta di sabbia. Poi improvvisamente irrompe il metal, irrompono note di chitarra elettrica staccate con ferocia, e la voce pare oscillare, a seconda della dinamica richiesta, fra un Maynard James Keenan minore, giusto per fare un esempio, e il grind-core degli Impaled Nazarene, giusto per farne un altro. Vocalità rock, calda e densa di ombre, graffiante quanto basta, e cavernosità gutturale, che poi è tipica dello stoner.
I DSGE sono cinque ragazzi. Che belli i gruppi formati da cinque, in tempi in cui le strettoie economiche costringono molti a fare di necessità virtù, suonando in due, e talvolta anche da soli, sommersi da cavi e cavetti di mixerini, synthini, pedaliere, e loop-station. Il disco in questione, guarda un po’ , è suonato da una band. E si sente. Tre tracce, per venticinque minuti scarsi. Ma non dal punto di vista qualitativo. C’è una sezione ritmica che fa il suo sporco dovere. Tutti, a dire il vero, fanno il loro sporco dovere. Sporco in che senso? Sporco di cosa? Di cenere di ossa, di resti di carcassa, lasciata a marcire nel deserto. Perché alla fine sempre di rock si parla. E il rock è un animale in putrefazione. Tutti se ne cibano però, e il banchetto non conosce fine. Sono bravi, dunque, questi cavalieri elettrici, nelle vesti di sciacalli, o di uccelli spazzini? Lo sono. Ci sarebbe piaciuto ascoltarli in italiano, dacché riteniamo che il nostro idioma avrebbe un disperato bisogno di essere cantato all’interno di certi generi, purché in una veste credibile. Ma sarà per un’altra volta, per un altro gruppo, per un’altra storia.
Il disco procede egregiamente, per dire lontano dal gregge, come il bolide in fuga di Mad Max, fra pause doverose, per alimentare l’atmosfera, la suspense, la tensione, e ripartenze da ingoiarsi la terra. Deserto stoner, e pioggia di meteoriti metal, come si suggeriva all’inizio. “Space Cake”, “Avalanche”, e “Long death to the horizon” sono legate in un unico flusso di coscienza. Si alternano diversi stati emotivi. Tutti ugualmente oscuri. Lo Zero in copertina, poi, che sarà? L’ennesimo serpente dell’eterno ritorno? Ancora Nietzsche? O piuttosto un brandello di worm-hole alla Donnie Darko? Si può tornare indietro per riscrivere il futuro? Quanto meno della nostra musica? Il ciclo, la serie positiva, si ripeterà di nuovo, come un azzardo fortuito sulla roulette del tempo? Il tempo, proprio lui. Ma l’infinito, forse, è già stato scritto, è già finito, per non dire sfinito. Questo disco, ad ogni modo, vale come scarica di defibrillatore. Il paziente non ce l’ha fatta. Però si è mosso. E noi, dopo Jon e Bud, abbiamo una nuova Spencer Explosion. E questo E.P ci ha fatto viaggiare con l’immaginazione, che non è poco. Ma nulla è infinito per davvero, anche se il cadavere, stavolta, è proprio squisito. Suonerà assurdo, ma questi ragazzi viene voglia di ascoltarli dal vivo.