Titor – L’Ultimo

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“Gli ultimi saranno primi“, diceva una volta qualcuno. “Gli ultimi saranno ultimi”, recita invece il titolo di una pellicola diretta da Massimiliano Bruno, in origine testo teatrale, che pone al centro la storia di una donna di Anguillara oppressa dalla società, interpretata da una Paola Cortellesi meno spiritosa e molto più spiritata (“Io rivoglio la mia vita! Rivoglio lo stipendio basso mio!”). Dare voce agli ultimi, in sostanza, questo è l’imperativo categorico. Di molto cinema e di molta musica alternative. Ne sa qualcosa Il Teatro degli Orrori di Pierpaolo Capovilla, e ne sanno qualcosa anche i Titor, band torinese che con i Linea 77 non condivide solo la città natale, o l’etichetta discografica INRI, ma anche lo stile: un crossover figlio del post-hardcore. Un rock ‘n roll ibridato con la sua stessa progenie bastarda, dai Refused fino ai Rage Against The Machine. Quelli che insomma, sempre restando in tema, volevano essere la “Voice Of The Voiceless”.

Questo è il loro secondo album, sarcasticamente intitolato “L’ultimo”. Nove brani che come altrettante staffette si passano la fiaccola senza mai lasciare che si spenga. In altre parole: non ci sono ballatone pacchiane del tipo “rifacciamo “Nothing else matters” dei Metallica versione rap/metal”, che pure in dischi di questo genere spesso si rischiano di incontrare. E già questo è un pericolo scongiurato, almeno per il sottoscritto. Sabino Pace, cantante e autore dei testi, si rivela, o si conferma, a seconda del vostro grado di conoscenza del gruppo, una voce che meriterebbe più risalto nel panorama nostrano. Acida, ma non supponente. Prepotente, ma non grossolana. Scattante, ma non sbrigativa. L’esatto contrario di quello che solitamente sentiamo in ambito post-hardcore. Qui da noi. Qui nella terra degli alternativi. E poi, cosa più importante di tutte, la band va segnalata per via di un’ulteriore stranezza, di una caratteristica che desta incredulità, se non imbarazzo, che davvero uno non si aspettava, non pensava, non ci sperava più. C’è una cosa che più di tutte crea un distacco, in odor d’eresia, fra i Titor e la maggior parte dei gruppi italiani non-mainstream, ovvero: i Titor sanno fare le canzoni. Proprio così. In questo disco infatti non troverete strofe messe a cazzo di cane in mezzo a rumorini intervallati da riff che non ricorderesti manco se ti scrivessi lo spartito sul palmo della mano a mo’ di “Memento”. Qui, spesso e volentieri, ci sono strofe ben costruite, qualcuna più qualcuna meno, che trovano sbocco, felicemente, in ritornelli d’impatto. Diretti, potenti, riusciti. Una rarità, ahinoi.

Consapevoli di non aver inventato nulla, i Titor puntano tutto sull’efficacia dei singoli brani, e sulla compattezza dell’opera nel suo insieme. Che siamo sulla strada giusta si intuisce già dall’iniziale “AL.D.LA” (che poi forse è il pezzo più scontato e ruffiano della raccolta), e quando si arriva ad una “May Day”,  si ha la certezza di avere a che fare con una band che al giorno d’oggi, sacrilegio!, sa ancora infilare una sequenza di brani vincenti (altro che ultimi), senza immalinconirti le gonadi a suon di spoken-word esistenziali , con chitarre al minimo volume, sul solito tizio che vorrebbe andare in pizzeria ma trova chiuso per ferie. Non a caso, sarcasmo a parte, il primo album della band si intitola “Rock is Back”. Si tratta di un rock che, ovviamente, è uscito a brandelli dagli ultimi 20-25 anni di storia, a voler essere generosi. Ma è un rock senza complessi d’inferiorità (altro che ultimi, di nuovo), che, pur esibendo schegge e ferite dei decenni trascorsi, non ha timore di aprirsi melodicamente e al contempo di picchiare duro.

C’è poi tutto l’armamentario lirico, e retorico, della lotta contro il sistema, contro il grande nemico, anche se oggi il nemico si è esteso, si è fatto più liquido, inafferrabile, quasi sottocutaneo. Ma c’è anche un intelligente citazionismo, tradotto in sberleffo più tragico che comico, che tira in ballo frasi e luoghi comuni della Grande Canzone Italiana (sigh!), da Vasco Rossi a Morandi, come nella stupenda “Novecentonovantanove”.  Perché “Uno su mille ce la fa”, ma gli altri?

Gli altri, sic et simpliciter, si attaccano al cazzo. Ma i più bravi capiscono che il trucco sta tutto nel riciclo, e non nel senso della raccolta differenziata. Simulacri di spettri ed ombre di fantasmi, che si passano il testimone in eterna staffetta, vedi il brano “Come-Copie-di-Copie”, questo siamo. E anche ladri. Da qui la bontà delle citazioni messe in campo: appropriarsi di qualcosa per farne qualcos’altro. Lo chiamano postmoderno, ma si fa dalla notte dei tempi. E i nostri, quelli che noi stiamo vivendo, sono più notturni che mai.

Si legge nelle note della band che Sabino Pace, il cantante, vive a Parigi ormai dal 2013. Chissà se ha vissuto in prima persona gli attentati dello scorso anno. Chissà se anche questa paura si è riversata nelle canzoni. Non avendo risposta, possiamo sempre ascoltare questo bel disco dei Titor, che è “L’Ultimo”. Intanto che aspettiamo “Il Prossimo”.

POST SCRIPTUM:

Il nome della band deriva da un certo John Titor, figura quasi mitologica del web, avatar misterioso che divenne celebre per le sue profezie, e per le sue teorie complottiste. Un po’ Jack Folla, un po’ Doctor Who, un po’ Nostradamus. Con un pizzico di “The Manchurian Candidate”. Andatevelo a cercare insomma.