Lucio Fulci: l’uomo che ha sconfitto la morte

Oggi Lucio Fulci avrebbe compiuto 89 anni. Noto come “l’artigiano del gore”, “il terrorista dei generi”, “il maestro dell’horror all’italiana”, Fulci non era altro che questo: un genio del cinema. Sfortunato (come spesso capita ai geni), osteggiato (idem), più volte dimenticato (idem con patate).

Troppi ignorano che Fulci, tuttora assimilato erroneamente a derive cinematografiche di stampo trash, era in realtà un raffinato tecnico della cinepresa, un esegeta della settima arte, e un uomo con una sua visione del mondo, della politica, e della società. Visione che appare evidente in tutta la sua opera. Un artista completo, dunque. E non un artigiano.

Venuto su con maestri come Visconti e Antonioni, nonché sceneggiatore al fianco di Steno (“Un Americano a Roma” vi dice niente?), Fulci avrebbe forse preferito essere ricordato come un grande autore di commedie o di drammi, ma era un artista che non viveva di velleità. Dove c’era da lavorare, Fulci lavorava, lasciando sempre il suo marchio indelebile. Per molti versi innovativo.

Girò, solo per fare qualche titolo,  le migliori pellicole con Franco & Ciccio (“Come Rubammo la Bomba Atomica”, del 1967), un western saccheggiato a piene mani da Tarantino nel suo “Django Unchained” (“Le Colt Cantarono la Morte e fu … Tempo di Massacro”, del 1966), un thriller giallo fenomenale (“Non Si Sevizia un Paperino” del 1972, la cui sequenza dell’omicidio della magiara ha ispirato, per l’uso straniante della musica, la tortura al poliziotto in “Le Iene”, sempre di Tarantino).

Come ogni grande regista, Fulci era capace di affrontare qualsiasi genere, scuotendolo dall’interno, esaltandone le caratteristiche più viscerali, e spingendo oltre i suoi limiti (in questo senso, certo, possiamo definirlo “il terrorista dei generi”). Ma Fulci, a differenza di altri registi ben più blasonati, lavorava con tempi ristretti e budget ridotti (ridottissimi nella fase finale della sua carriera). E aveva una poetica autoriale ben definita, che riusciva a inserire ovunque: in un film comico, in un western, in un gangster-movie, in un horror. Una poetica pessimista, laica, e politicamente marxista. Schierata dalla parte dei più deboli, ma con un senso di orrore cosmico in più.

Occorre ricordare, quanto meno, quello splendido trattato di antropologia in salsa thriller (e che thriller), che risponde al nome di “Non Si Sevizia un Paperino”, dove sono chiari gli attacchi alla religione, all’omertà, alla chiusura mentale, e all’assenza assoluta dello stato in certi luoghi del nostro paese. E se vogliamo al divaricarsi netto e irreparabile di due Italie ben distinte: quella dei borghesi, e quella dei poveracci reietti (la famosa questione meridionale).

Di Fulci possiamo ancora ricordare capolavori di orrore lovecraftiano come “… E Tu Vivrai Nel Terrore! L’Aldilà” (1981), o “Paura nella città dei morti viventi” (la scena della medium sepolta viva, di nuovo Tarantino, stavolta in “Kill Bill Vol.2”, mentre in “Kill Bill Vol.1” viene ripresa la colonna sonora di “Sette note in nero”, altro capolavoro di Fulci). Ma anche sublimi esempi di cinema pauperistico (per necessità) e profondamente fulciano come “Quando Alice ruppe lo specchio” (1988), “Voci dal profondo” (1991), o la summa meta-testuale di “Un gatto nel cervello” (1990), che raccoglie spezzoni di vari film del maestro allestendoli in una trama che vede Fulci nel ruolo di sé stesso, e dove viene ribadito con sferzante ironia l’odio nei confronti della psicanalisi.

Il suo ultimo progetto sarebbe dovuto essere “La maschera di cera”, ma non fece in tempo a girarlo, e il film venne poi realizzato da Sergio Stivaletti. Cosa si può dire di un regista che ha affrontato i codici della commedia all’italiana rinnovandoli, che ha affrontato il noir con innesti di violenza grafica mai visti prima (“Luca il contrabbandiere” del 1980), che si è inserito nel filone dei thriller cosiddetti animaleschi (lucertole, gatti, uccelli, paperini) rivoluzionandolo dall’interno, e che nonostante tutto questo (nonostante la sua conoscenza del mezzo, la sua poetica mai rinnegata, e la sua capacità di gestire al meglio budget risicati) è stato messo in un angolo?

Davvero, cos’altro si può dire? Solo da noi. Solo in Italia. Ma alla fine, una vittoria c’è stata comunque. Un tema ricorrente in Fulci, soprattutto nei suoi ultimi lungometraggi, è infatti la sfida con la commare secca, e la comunicazione fra vivi e morti. Il cinema, il suo cinema, è ancora il suo modo per comunicare con noi dall’Aldilà, e anche l’unico modo possibile che c’era per consegnarsi integri al cospetto dell’eterno, e del nulla, si suppone. Quindi facciamo gli auguri a quest’uomo di quasi novant’anni. Facciamo gli auguri a Lucio Fulci (1927-1996): l’uomo che ha sconfitto la morte.