Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
29 settembre 2016 | autoprodotto | ![]() |
Un tuffo dove l’acqua è più nera, con in cuffia una playlist che prevede, in sequenza e in simbiosi, gli Slowdive, i Delenda Noia, e il lato più oscuro dei Cosmetic. Però una volta dentro si nuota in (im)perfetta solitudine fra Brondi, Giardini, e altri nomi più pertinenti che di sicuro mi sto dimenticando (o forse no). Perché in Italia si suona da soli. Perché in Italia sembra che tutti siano pronti a metter su una band dopo un incontro fortuito (una serata in discoteca, una scopata nel bagno, non so, avete presente quelle cose romanzate). Ma la verità, o meglio, la verità che qui ci sentiamo di affermare (dalla nevrosi al plurale maiestatis il passo è breve) è che in Italia NESSUNO vuole suonare con te. Devi farcela da solo. E allora si apre un mare di possibilità, compresa, ovviamente, quella di annegare. Vi diamo il benvenuto nel mondo di Angelo Sava e di “Addio Pimpa”.
Sulle prime, senza neanche aver sentito una nota, lascia già dubbiosi. Quel titolo bruttino. Quella copertina un po’ alla Biagio Antonacci (ne parlo come se fosse una categoria del brutto in sé, perdonatemi). Poi parte l’ascolto, destabilizzante. Ci perseguita l’immagine di un Vasco Brondi votato allo shoegaze, perso fra le “Costellazioni”. Ci appare quasi un connubio insostenibile. E in un certo senso lo è: a tratti indigesto, a tratti grandioso. Perché il pesarese Angelo Sava, sempre in bilico fra il noise, il recital-dark fiorentino, e i piagnistei del nostro alt-rock più recente, sa mettere quel qualcosa in più che altri non hanno in dotazione, quel tanto d’inspiegabile e di metafisico (l’anima?) che ad altri non è concesso avere. E ci racconta un microcosmo di oggetti andati e vite perdute fra quattro pareti quattro (come il numero dei brani), che grazie alle bordate di synth e riverberi elettrici diventa una finestra sull’universo, sull’ignoto.
Pur con le sue imperfezioni, “Addio Pimpa”, in qualità di extended-play, merita un punteggio alto. Perché suggestivo. Perché nato nella parte più buia del Cosmo (e chi vuol capire capisca). Certi passaggi non tornano (e perché dovrebbero, in fin dei conti?). Le chitarre elettriche talvolta stridono un po’ troppo. Ma il brano “Ritornerò” ha il fascino pop (che paradosso) che solo i classici underground possono vantare. E le quattro tracce sembrano un’unica suite nel segno di un post-rock da cameretta, o di un oltre-rock sussurLATO a favor di streaming (of consciousness). Più Cosmetico che Cosmico. Più Giardini di Brondi che Giardini di Mirò (ma Giardini anche in senso di Umberto). Inoltre, il disco vale come allucinazione ed emblema del fare musica in questi anni, del farla fuori da certi circuiti: un ufficio oggetti smarriti sospeso nel nulla, un canto che spalanca le finestre, e infine un tuffo dove l’acqua è più nera. Verso il punto di non ritorno. Un tuffo a rallentatore.




