Shake, Bob, Shake! Così è andata la serata di Domenica 30 Ottobre al Palalottomatica di Roma, in zona E.U.R. E così la ricorderemo, senza troppi giri di parole. Shake, Bob, Shake! Dove “Bob” non sta per “Dylan” ma per Robert Smith dei The Cure, ovviamente. Ciccioso Pierrot di stirpe crepuscolare. Depresso ma non troppo. Fra i padri fondatori di un genere, di un’estetica (dicasi DARK), benché l’argomento sia ancora oggetto di disputa fra i seguaci delle tenebre. In pista da un quarantennio (“Three imaginary boys, il primo album, è del 1979). Ha esplorato le stanze più buie dell’Umano (ci basti l’esempio di “Pornography”, 1982), per poi monetizzare il lato positivo (e assurdo) dei suoi sogni in chiave pop (basti citare “The head on the door”, 1985). E prima di assurgere allo status di vecchia (?) gloria in tournée permanente, si è concesso il lusso di licenziare almeno un altro capolavoro (“Bloodflowers” del 2000, progenie nerissima del ben più celebre “Disintegration” del 1989). Figlioccio del trasformismo di Bowie, ma infinitamente più lirico in senso Leopardiano. E umorale, nell’accezione più “umoristica” del termine (la bocca ride, l’occhio piange, e/o viceversa). Pantagruelico divoratore di patterns (blues, jazz, folk, sixties, latin et cetera) da sintetizzare e ri-arrangiare in brani ora prossimi alla canzone ora prossimi alla suite, con un marchio vocale e chitarristico inconfondibile. Maestro dell’intimismo e della pantomima. Saltimbanco bipolare. Mattacchione a intermittenza. Va da sé che declassarlo al rango di stilista per cuori infranti sarebbe riduttivo, se non oltraggioso. Ma come ci insegnano i Litifiba di “Apapaia” è assai difficile cambiare un’idea. Figuriamoci un’icona.
Shake, Bob, Shake! Il Palalottomatica si è animato lentamente, dal parterre fino agli spalti. A pochi minuti dall’inizio dagli altoparlanti è fluita “Sugar Hiccup” dei Cocteau Twins, assieme ad altre perle dello storico duo. Purtroppo i The Twilight Sad in apertura ce li siamo persi, anche perché raggiungere il posto con l’ausilio degli autobus è stata un’impresa garibaldina. Poi, ad un tratto, luci spente. Ovazione assoluta. La band è salita sul palco. Coi suoi cavalli di battaglia. Quasi ogni episodio discografico ha avuto la sua quota in gioco. Un incipit aggressivo e in parte inaspettato. Ci riferiamo a “Shake dog shake” da “The Top” del 1984 (molti speravano in “Plainsong”). Un’ottima “Fascination Street”, tratta da “Disintegration”, con il basso di Simon Gallup, al solito essenziale ed ossessivo, nel duro ruolo di ambasciatore del post-punk in tutto il mondo. “The head on the door” è stato il capitolo più visitato, con le sue “In between days”, “Kyoto Song”, “Push”, “Close to me” e “A night like this”. Il nostro Bob ha alternato momenti vocali impeccabili (“The Lovecats”, in primis), ad altri più ciancicati e buttati via (“Push”, “Wrong Number”), mantenendo in generale un timbro formidabile e una verve imperitura. E amen se spesso ha abbassato i toni di un’ottava. In fin dei conti parliamo del concerto (magnifico) di un quasi sessantenne e non di una playlist di spotify.
Non sono mancati i cori da stadio, come nel caso del refrain di tastiera di “Play for today”, da “Seventeen Seconds” del 1980. Anche se il sospetto è che dopo i mondiali di calcio del 2006, e dopo la metamorfosi ultras di “Seven nation army” dei The White Stripes”, la tendenza del pubblico italiano sia quella di po-poppare tutto il po-poppabile. In più sono stati eseguiti due brani unreleased, forse materia per il nuovo album (uscirà? Non uscirà? Boh!). Ma a parte questo ci urge premiare la lunga cavalcata rock di “From the edge of the deep green sea” da “Wish” (1992) e l’esistenzialismo elettrificato di “Want” da “Wild mood swings” (1996), malgrado qualche problema tecnico con le chitarre. Al calore dei presenti, Robert Smith ha replicato con movenze da gattone in amore (copyright di Ilaria, sull’onda di “The Lovecats”), e con una fitta sequenza di encores. E se il martellamento ritmico di “Give me it” da “The Top” è stato devastante, davvero ai confini dell’industrial, si è tutto concluso in allegria (semplificando) con “Friday i’m in love”, “Boys don’t cry”, tratta dal disco d’esordio, “Close to me”, e “Why can’t i be you?”, da “Kiss me kiss me kiss me” del 1987.
Due ore e mezza di luci accecanti, e spiragli salvifici. Come il cielo che scorreva sullo schermo, durante l’esecuzione di “High”. Alla fine, l’applauso è stato scrosciante, prolungato, imbarazzante. Per Bob e i suoi turnisti di lungo e lunghissimo corso. Per i The Cure, insomma. Ma soprattutto per Bob. Shake, Bob, Shake! Ancora una volta. Un gattone onorato e quasi dispiaciuto, mentre abbandonava la scena abbracciato da cotanta acclamazione. Con lui fra le nuvole, in questo weekend di terra che trema, di polemiche, di Raggi e di Fuksas (la sua di “Nuvola”, proprio lì all’E.U.R). In questa domenica di gente disperata (altrove, ma sempre più vicino), di militari in allerta, di veleni politici, a salvarci ci ha pensato un poeta della perfida Albione. Con lui fra le nuvole. Just Like Heaven. Più o meno, diciamo.