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3 Febbraio 2017 | Woodworm | www.fask.it |
Ricordo la prima volta che ho ascoltato i FASK. La giornata era iniziata rovinando i tavoli di un avvocato, proseguita ululando da Equitalia. Dieci ore di lavoro e una febbre in incubazione. Proprio mentre mi accasciavo sul divano, un’amica mi sequestrò per un concerto. In macchina mi disse: stavolta ti faccio sentire io qualcosa.
Mise “A cosa ci serve“. Il 2013 volgeva al termine, faceva freddo e tra di noi aleggiavano due fumi: quello del nostro respiro sotto zero e quello delle sigarette. Il pezzo era una delle cose generazionali più toccanti e ben interpretate che avessi mai sentito. Ma che gruppo era? I loro album non avevano ancora raggiunto lo spessore che arriverà in seguito; c’erano cose interessanti, altre esaltanti, molte cose da rivedere, alcune ingenue. Poi arrivò “Alaska” e fu un passo verso la maturità.
Li ritrovo dopo anni i FASK, contento del seguito raggiunto, felice che una band dalla letteratura precisa come la loro – rivolta soprattutto ad un pubblico post adolescenziale –, continui ad esprimersi compiutamente su questi contenuti.
Con “Forse Non E’ La Felicità” si ribadiscono i picchi e le cadute del precedente Alaska: oltre alla volontà di strutturare i brani mediante quell’altalena fra pieni e vuoti che rimanda alle dinamiche di certo Post-Rock a cavallo con l’Emocore. Chitarre fragorose – mai davvero drastiche –, più attente a colpire l’anima dell’ascoltatore piuttosto che ferirla, e una voce superba (e pastosa) rappresentano ancora una volta il punto di forza della band.
Non siamo di fronte al capolavoro che forse ci si attendeva dalla band (oramai alla quarta prova), ma al consolidamento di uno status: rappresentato qui da un buon gruppo di genere. Perché inizialmente l’album intriga, ma col passare degli ascolti s’insinua quella sensazione in seno all’ottimo artigianato sprovvisto della firma d’autore.
Un disco che gioca con le derive anni ’90 (Sunny Day Real Estate) e i post(umi) di un emo addomesticato (My Vitriol) – ma che una volta era serio nel suo rischiare la commistione tra leggero Post-Core e melodicissimo dramma alla napoletana. Un germe che si è depositato in mille gruppi sparsi per il mondo e che da noi è arrivato in forma leggera: un mostro dal bel viso, possessore dei cromosomi di Verdena (non Fluxus) e Ministri (e non Refused), impatto alla Teatro degli Orrori (non Jesus Lizard), e ovviamente Fine Before You Came (non Negazione). Un luogo dell’arte dove tutto viene declamato alla maniera di anthem grunge sporcati di emotività; satelliti atemporali caduti sulla terra.
Talvolta si gioca sui riverberi Shoegaze – cose imparate mandando a memoria i dischi della Deep Elm –, altre con il Post Rock d’estrazione sonica alla Explosion In The Sky/This Will Destroy You/Motorpsycho, soprattutto nelle le trame chitarristiche.
Le cadute di tono arrivano con quei brani in odore di punkettone 90’s d’area Epitaph (“Giorni di Gloria“), rei di rimaner schiacciati dalla loro stessa retorica: dai cori e dalle soluzioni semplicistiche – francamente l’unico episodio sguaiatamente fuori contesto. Mentre in altri casi la band tocca vette dove la formula FASK funziona e diventa incendiaria. Come accade nella title track – il break tra Weezer e Foo Fighters è comunque avvincente –, nel romanticismo epico (ed iper-melodico) di “Asteroide” – non sbagliano mai gli inizi disco –, per poi sbalordirci col quel afflato da classico Hardcore presente in “Ignoranza“ – con tanto di testo fiero e antagonista. In pratica appaiono azzeccate le scelte dei singoli apripista, come testimonia anche “Annabelle“.
Forse Non E’ La Felicità usa una ricetta che già oggi mostra i suoi limiti ma che almeno in Italia risulta non usuratissima. Va considerato però il percorso: ripensando a dischi come “Cavalli” e “Hybris” risulta fin troppo evidente la maturazione.
Il rischio per il futuro è quello di perdersi nel Pop o cercare qualche riferimento a cazzo duro per riprendersi gli amanti del genere. Certamente gioverebbero certe frequentazioni nobili e dure (i ragazzi de La Quiete) o quantomeno reinventarsi con un pizzico di fantasia in più: alla Cursive?
Molto probabilmente rimarranno dove sono, contenti di esserci, in compagnia di questi eccessi melodrammatici alternati a strutture rockeggianti, grandi e fantastici live, uno zoccolo duro di ragazzi pronti a sostenerli ed un recensore con l’amaro in bocca che non continuerà ad aspettarli al varco, ma che sarà sempre presente sotto palco e che oggi avrebbe voluto scriverne la consacrazione.
Me li sono anche sognati la sera scorsa, mentre aprivano il prossimo Festival di Sanremo con “Asteroide” suonata dall’orchestra, lasciando i vecchietti a bocca aperta – con i giovani non-alternativi lanciati in un pogo generale, cose mai viste nella città dei fiori. Non me ne vogliate ma vi ho immaginato così fra vent’anni, come dei Pooh del Rock duro nostrano: che forse non sarebbe neanche male in un’Italia diversa, e quindi da sognare.