Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
3 marzo 2017 | rough trade | sleafordmods.com |
Dai, assaggia le tapas inglesi! Abbiamo uova sode, patatine, cetriolini e anche i montaditos britannici alla carne!
Grottesco, vero? Abbastanza. La leggenda dice che Andrew Fearn (l’addetto “ai suoni” degli Sleaford Mods) abbia visto un menu più o meno di questo tenore sulla lavagna di un pub. Ecco, a quel punto non ha più avuto dubbi sul titolo da dare all’album. Grottesco, appunto. Questo è il senso di tutta la questione: le miserie della Gran Bretagna. Oggi più di prima.
Certo, non è difficile fare un album politico di questi tempi, nell’Inghilterra della Brexit. E lo stesso vale per l’America incerta del 2017. Ma il duo di Nottingham non è del circolo di chi si è accodato. Il suono e le parole di English Tapas (sì, ci vergogniamo anche solo a scriverlo ed era quel che volevano, maledetti!) sono quelli inconfondibilmente loro. Canonici per quanto possa dirsi canonica una cosa in cui un tizio sputa frasi urticanti e un altro si beve una birra perché “il suo” l’ha già fatto prima, quando ha impastato e campionato punk, dub ed elettronica. Jason Williamson, colui che laicamente predica e salmodia, lo fa ancora con quell’accento che al confronto Ian Dury poteva essere americano. È la working Class contro tutti (“B.H.S.”) e con tutti i consueti colpi di vaffanculo.
Diciamolo che forse gli Sleaford Mods (in giro da oltre dieci anni, anche se all’inizio Fearn non era della partita) hanno già vissuto la loro fase più dirompente. Anche se la componente monocorde continua a portare il carico di aggressione ipnotica, la stessa non concede quell’esplosione che a volte servirebbe.
Ma non è che English Tapas (fuori su Rough Trade) sia la replica a occhi chiusi di Divide And Exit o di Key Markets. Williamson le cose migliori le fa tutte le volte che rimodula la sua liturgia e lì in mezzo al flusso s’inventa qualcosa che somiglia a una melodia (“I Feel So Wrong” e “Moptop”). C’è quindi la salvaguardia di una coerenza con se stessi anche le volte che provano a spingere un po’ più in là il confine. “Just Like We Do” è il miglior manifesto in questo senso. Williamson riformula la parola e l’estetica punk meglio di molti altri. Anche quando ricorda un po’ John Lydon, un po’ Joe Strummer, un po’ Mark E. Smith.
Ecco, al di là di tutto, la cosa che va riconosciuta agli Sleaford Mods è che non hanno bisogno né di sviluppare un discorso elettronico scientemente minimale o destrutturato, né devono portare per forza gli strumenti sul palco. Entrambe le cose sacrificherebbero l’urgenza che riescono a trasmettere solo così: discorsi a perdifiato, casse sfondate e copioso luppolo. Andrew Fearn a volte svuota, altre arricchisce e riempie, sempre in una sana alternanza. Comunque i tipi della Bodega Santa Cruz a Siviglia urlano forte e veloce come Williamson quando sono pronte le tapas. E la birra.