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3 marzo 2017 | woodworm label | paolobenvegnù.com |
Avvicinarsi a un nuovo disco di Paolo Benvegnù implica quasi sempre la necessità di armarsi di una sana dose di paziente curiosità, abituati come siamo ad un mondo culturale sempre più semplificato e semplificante. Un mondo fatto di interazioni continue, dirette e (im)mediate rispetto a quello che un tempo era la prerogativa più importante della cultura: la mediazione fra la complessità dell’umano e la capacità di comprensione della stessa.
“Noi dobbiamo tramandare informazioni, e queste informazioni più sono pertinenti e dette con parole giuste, meglio è”, dice Benvegnù in una recente intervista radiofonica: parole che ben spiegano il suo approccio verso la musica e la scrittura, e che servono ad introdurre anche questo suo nuovo H3+. L’ardente pazienza, é quella di cui ci si arma per entrare dentro la musica di Benvegnù: perché ogni suo disco è una scoperta, un’esplorazione di mondi apparentemente distanti, sconosciuti e talvolta freddi. Ambienti che invitano a perdersi al proprio interno, esattamente come si lancia verso l’infinito “Viktor Neuer” – finzione strumentale all’esplorazione di un mondo umano che si stacca dal terreno per farsi materia cosmica, materia oscura da indagare.
Dopo la storia dell’uomo (Hermann), quella della sua parte terrena, insta nelle piccole stanze del quotidiano (Earth Hotel), ecco l’ultimo capitolo della “trilogia dell’H”: l’uomo nello spazio. H3+ è lo ione triatomico di idrogeno, la particella alla base dell’universo, l’elemento più spesso presente negli spazi interstellari. Materia di esplorazione metaforica, lo spazio fra le stelle: un viaggio in territori ignoti e sconosciuti nei quali perdersi e andare “alla Deriva” nel tentativo estremo e astratto di ritrovare se stessi, o meglio, lo “sconosciuto che è dentro ognuno di noi”. Territorio di conquista, dunque, non poi così fantascientifico come si potrebbe pensare ad un primo approccio. L’esplorazione dell’ignoto che compie l’immaginario protagonista del disco (Viktor Neuer) è in realtà quella dell’uomo: nel tentativo di colmare un’altra distanza, anch’essa siderale, fra il sé reale e il sé immaginato.
Il viaggio inizia con le presentazioni di rito e un paio di pezzi che servono a introdurre discorso e intenzioni. D’esempio è l’arpeggio quasi flamenco di “Viktor Neuer”, vera e propria preghiera propiziatoria indirizzata ad alcune strane divinità (come la Dea dell’Incoerenza, ad esempio) affinché gli/ci insegnino il cammino, mentre l’elettronica cupa di “Macchine”, è lì a simboleggiare la ricerca di astrazione verso cui ci si sta lanciando (“cerco ciò che è intatto, astratto, sommerso/sconfitto/ sommerso, astratto, distratto/diverso”). A far partire il vero e proprio viaggio verso l’oscurità dello spazio ecco il ritmo seducente di “Goodbye Planet Earth”, un omaggio non troppo celato ad uno dei pezzi più belli di David Bowie, “Ashes To Ashes”. Del resto, in un concept sull’universo e sullo spazio, il riferimento a quel Major Tom aggiornato in tono minore sembra introdurre benissimo il senso dell’esplorazione verso se stessi, quella che Viktor Neuer sta compiendo e che lo porterà di lì a poco a chiedersi “se questo sono io”.
Se questo sono io.
Se è vero ciò che è sempre stato.
Ho navigato senza trovare niente.
Cercando sempre l’infinito.
E ho varcato orizzonti soltanto per perdermi sempre.
L’errore sono io.
La nebbia sono io.
La ricerca di sé, i dubbi, le domande vengono suggerite da un’altra astrazione chiave, quella dell’amore che qui diventa un’olovisione (“Olovisione in parte terza”), impalpabile, inesistente ma fondamentale per questo strano percorso che anela all’infinito. È un amore che non parla, forse perché non c’è, o forse perché è nelle “radiofrequenze di passaggio, l’Assoluto, il Miraggio irrangiungibile” e vive dove non esiste il tempo. É una delle immagini più commoventi e suggestive di questo H3+, contenuta in un pezzo acquatico e sublime, con uno splendido passaggio di pianoforte a far da contrappunto alle cascate oniriche delle trame sonore. Nel bel mezzo della narrazione, le infinite possibilità dell’esistente racchiuse in “Boxes” e “Quattrocento Quattromila”, che in un climax ascendente si sciolgono nel tutto armonico con cui si conclude il disco: con il sole che esplode e acceca di “Astrobar Sinatra” e il ritorno sulla Terra sotto forma di waterfalls. La pioggia di materia liquida e salvifica, cantata in “No Drinks No Food”, rappresenta infine il brano più cantautorale in un senso classico dell’intero lavoro, una chiusura piena di luce e grazia.
Le parole, fin dai primi pezzi, sono più rade ed ermetiche del solito, accuratamente selezionate per formare quel connubio armonico con la preziosa stratosfera musicale in cui il disco si muove. Raffinatissime sono tutte le scelte compositive e gli arrangiamenti, molto più coerenti che in passato, con alcuni picchi assoluti: come per il sax in “Slow Parsec Slow” suonato per l’occasione da Steven Brown dei Tuxedomoon, uno dei pezzi esteticamente più riusciti dell’album. Fa capolino in questo lavoro un uso più massiccio dei suoni sintetici, mai abusati ma disseminati un po’ ovunque.
È un Paolo Benvegnù rappacificato e fluttuante, quello di H3+ .Un nuovo capitolo della sua carriera che sembra rappresentare un punto d’incontro fra le varie istanze precedenti, e che riprende le atmosfere già presenti in Earth Hotel – sviluppandole lungo una dorsale più coesa e armonica. Qui non troverete, il brano pop che colpisce al primo ascolto, che pure il cantautore milanese sa ben costruire (come ha dimostrato in passato), ma tutte le canzoni in esso presenti possiedono una grazia stupefacente e commovente, capace di crescere ascolto dopo ascolto. Il concept, presente qui come nel resto della trilogia, trova in H3+ una soluzione musicale ponderata e armoniosa. Una vera e propria “waterfall” che ti scivola dentro senza scossoni, che fluttua come nello spazio e ti conduce lungo questo percorso iniziatico. Uno stato di grazia e una grandezza che pochi altri autori posseggono, ora come ora, in Italia.