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6 marzo 2017 | autoprodotto |
Quando Angelo Sava è qui con noi, questa stanza non ha più pareti, ma nuvole. Nuvole infinite. Cumulonembi di noia da sprigionare, con spremute meccaniche di corde post-rock. Una caduta. Del canto, dentro il rumore. Sullo schermo, previsioni del tempo non buone. Dettate da una pedaliera shoegaze. Riverbero & Delay (che poi non muore mai) spargono schizzi di colore. Sulla tela, pennellate noi(o)se, stanche. Ma stranamente animate da una fiaccola vitale che sta lì, giù in fondo, lontanissimo. Il corpo della forma canzone, imbottito come il maiale sacrificale di una festa povera, sagra finale di un magro raccolto. Con in bocca una mela piena di vermi. Attorno, rumorose e ronzanti mosche, o zanzare di palude. Odori nauseanti che fumano fuori dal corpo. “Miasmi”, in una sola parola. Ossia il titolo del terzo e.p di Sava. Il terzo nel giro di pochi mesi. A cavallo fra 2016 e inizio 2017.
C’è l’eco sommersa di antiche glorie, in questo disco a tratti davvero sgradevole. Come la dolce violenza dei Pastel Blue, o dei The Ecstasy Of Saint Theresa, che si affaccia dalla quinta traccia intitolata “Brusio”. Tanto per non tirare in ballo i soliti My Bloody Valentine. Dolce violenza che si affaccia, per farsi vedere meglio in volto, per lasciarci avvistare/immaginare tratti somatici e compagnia. Sei tracce che sembrano una sola. Una suite (una stanza, dove un ragazzo/uomo riceve a colloquio le muse dello shoegaze) in cui a ogni tappa la chitarra riparte quasi dallo stesso punto, per poi esplorare intensità ulteriori. Fra effetti, affetti, efferatezze assordanti. Miasmi e fantasmi. Suonare con gli occhi che fissano le scarpe (la pedaliera), ma farlo con impeto accentuato. Valentina sanguinante, scaraventata nella pattumiera del grunge (poteva essere un testo di Brondi). Già coi Deftones, prima ancora coi Catherine Wheel. Palloncini pronti a scoppiare.
E se l’assenza della batteria da una parte lascia un senso d’incompiutezza, a metà fra il provino e la traccia rimasta a metà, dall’altra invece esalta lo stile dell’opera, il suo contrasto. L’ossimoro acustico che suggerisce: una tumultuosa staticità. Come del resto accadeva nel precedente “Addio Pimpa”. Qui però Angelo Sava sembra spostarsi di qualche grado (attenzione, di qualche grado) verso brani dalla struttura più riconoscibile. Addirittura con degli incisi che rasentano la cantabilità. Che rimangono in testa, ecco. E forse in questo senso la conclusiva “Carestia” è l’episodio più efficace (di un disco ad ogni modo breve ed omogeneo, per quanto ibrido).
Si ha un po’ l’impressione di ascoltare i nostrani Dade City Days e Cosmetic in versione one man band, anche se probabilmente si vagheggiano sentieri sperimentali alla Harold Budd (ma diretti altrove, s’intende). Ora come ora ( e come quando, altrimenti?) Sava è questo: cantautorato più rumore, con più musica che parole. Il cielo in una stanza per malati. E il ruggito dell’abisso.