Bob Dylan – Triplicate

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La quadratura del cerchio. Sembra che il ritorno alla primavera del fresco premio Nobel si stia completando. Del resto, il signor Robert Zimmerman ha avuto un carriera con tantissimi punti di snodo: a cominciare dalla famosa rivoluzione elettrica di Newport – ricordate l’attacco di “Like a Rolling Stone“? –, cercando di spiazzare l’ascoltatore proprio quando tutti credevano che la strada fosse tracciata.

Così accade anche in questo 2017 con l’uscita di un triplo album dal titolo Triplicate. Diciamo subito che il confezionamento poteva anche prevedere solamente due dischi, ma che il nostro porta a tre; un po’ per un aspetto numerico sornione, un po’ perché gli permette di recuperare quel minutaggio tipico dei vinile, intorno ai trenta minuti.

Un triplo album curioso, non un omaggio: bensì un confronto. Inedito. Il bisogno di scoprire come sarebbe stato Bob Dylan ai tempi della grandissima canzone d’autore americana, negli anni venti e trenta, quella dei cosiddetti standards: tutte quelle canzoni che hanno reso grande Frank Sinatra, che amava silenziosamente Dylan ma non ne incrociò mai la carriera anche se i due si stimavano profondamente.

Così Bob Dylan si veste da crooner. E rispolvera anche un’impostazione da cantante che negli ultimi anni sembrava quasi perduta. Certo, non è consueto ascoltare il cantautore americano cimentarsi in brani come “Stardust“, “September of My Years“, “Stormy Weather” e “How Deep is Ocean“. Sembravano mondi lontani, quelli che facevano da colonna sonora portante dei vecchi film della Hollywood d’oro con Fred Astaire e Gene Kelly. La grande scrittura americana, che in quegli anni sapeva unire e riconoscere letteratura, canzone e scenografia. Forse è proprio questo che ha affascinato Dylan, da sempre attento alle parole: quel riuscire a riconoscere, nell’approccio alla scrittura musicale, qualcosa di piacevolmente letterario.

Erano grandi autori quelli di “I guess i’ll have to change my plans” e “These foolish things“, ma avevano bisogno di una spolverata, e perdonate il concetto grezzo e diretto. Ecco allora che Bob Dylan decide di smettere i panni del menestrello infastidito, e al contrario, mettere su il vestito buono per l’occasione – ringiovanendo una voce in certi tratti già impostata. Anzi, ragionando in merito al mancato ritiro del Premio Nobel per la letteratura, possiamo affermare che questo album rappresenti una sorta di spiegazione sul perché l’Accademia Svedese abbia il cantautore americano. Ovvero l’ennesima riprova della grandezza di Dylan; un gigante letterario (e letterato) che vede nell’attività quotidiana di musicista il proprio agio culturale. Non si tratta di essere o meno ad un ricevimento. E non è neanche un fatto di etichetta – anche la scelta di Patti Smith di cantare “A hard rain’s a-gonna fall” non è stata casuale, visto il profondo testo che la caratterizza.

Bob Dylan rilegge la storia recente e contemporanea come un grande romanzo, sia in veste di regista che in quella di attore. Non c’è solo la rivoluzione – omaggiando i grandi padri di coloro che i tempi li hanno voluti davvero cambiare, o quantomeno provarci –, ed il cantautore di Duluth è stato in grado di dirigere, omaggiare e criticare tutti e tre i lati di questo specchio magico.

Data:
Album:
Bob Dylan - Triplicate
Voto:
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